A spasso per la Valle d'Aosta

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    Dai giardini botanici del fondovalle ai ghiacciai eterni.

    di Umberto Pelazza

    Un viaggio a piani altitudinali dal corso inferiore della Dora Baltea a una qualsiasi vetta oltre i quattromila metri corrisponde climaticamente a un balzo dalle tiepide
    colline mediterranee (pantaloncini e scarpe da ginnastica) ai rigori del Circolo polare artico (scarponi da trekking e giacca a vento imbottita), attraverso vigne e castagneti, latifoglie e conifere, pascoli e praterie, ghiacciai ed erte pareti. Il palcoscenico: un fiordo terrestre lungo e profondo, dai versanti costellati di borgate e villaggi, incisi da tracciati torrentizi che convergono nel solco centrale come le nervature di una foglia gigantesca.
    Come l’Egitto è un dono del Nilo, la Valle d’Aosta è un dono dei ghiacciai: ne sono condizionati agricoltura, turismo, energia elettrica, sport della neve. Agli alpini che verranno a sfilare nessuno forse dirà che, ancora ventimila anni fa, il suolo che calpesteranno giaceva sotto una cappa di ghiaccio alta un migliaio di metri: eppure il lavorio di questi aratri di Dio è sotto gli occhi di tutti, nelle valli approfondite e arrotondate, nelle scenografiche cascate, nelle fertili colline moreniche e nei laghetti di escavazione, i più suggestivi richiami del paesaggio alpino, scenari preferiti delle antiche leggende, specchi per cime illustri, vanità cui non si sottraggono né Monte Bianco né Cervino. Anche i grandi colli storici, come il Teodulo, il Piccolo e il Gran San Bernardo, sono stati scavati e modellati dai ghiacciai di confluenza, che ricoprono tuttora il colle del Lys, sulla displuviale elvetica, dove nel 1778 fu varcata, per la prima volta in Europa, la soglia dei Quattromila e nei pressi del quale, a quota 4.170, gli alpini di Aosta trasportarono, suddivisa in undici pezzi, la statua in bronzo del Cristo delle Vette , alta cinque metri e pesante una tonnellata.
    Meno noti i colli intervallivi, salvo ai frequentatori delle Alte Vie, una rete di sentieri in quota, lontana dai grandi flussi turistici e vicina a una natura non ancora banalizzata: l’Alta Via dei Giganti, che fiancheggia i colossi delle Pennine, Monte Rosa e Cervino, e l’Alta Via Naturalistica, che attraversa i parchi del Gran Paradiso e del Monte Avic.
    Il Parco Nazionale del Gran Paradiso è il più antico d’Italia: il suo simbolo è lo stambecco, l’antichissimo caprone selvatico con le corna a falce: insieme a camosci, marmotte, aquile, vive totalmente libero fra le sue balze, dove l’uomo, ospite di passaggio, trova la sua libertà rispettando l’ambiente e i suoi abitatori. Già Riserva Reale di caccia, nel 1922 fu ceduta allo Stato italiano perchè fosse adibita a parco nazionale: oggi si estende per oltre 70.000 ettari in territorio valdostano e canavesano. La sorveglianza è affidata ai guardaparco (i primi erano stati scelti fra i bracconieri pentiti … con ottimi risultati).
    La vita animale alle alte quote è vincolata a specifici adattamenti. La viviparità consente un pronto inserimento nel difficile ambiente, il letargo assicura la sopravvivenza invernale, il cambio stagionale di pelliccia e piumaggio regola l’assorbimento del calore e favorisce il mimetismo; per sfuggire ai predatori, lepre bianca, ermellino e pernice adottano un candido look invernale. Anche la flora ha dovuto subire processi imposti dalle basse temperature, dalle intense radiazioni solari, dalla carenza d’acqua, dalla brevità della stagione vegetativa: le dimensioni sono ridotte e molte piante sono perenni. La morbida peluria della stella alpina è un’efficace protezione contro l’eccessiva traspirazione e la violenza dei raggi ultravioletti.
    Il parco riserva un ettaro ai suoi… fiori all’occhiello, le mille specie di ogni provenienza che dal mese di giugno si possono ammirare nei loro ambienti naturali ricreati nel giardino alpino Paradisia di Cogne.
    Due orette di marcia o pochi minuti di funivia portano alla sede di Saussurea , il giardino botanico più alto d’Europa, che sulle pendici del Monte Bianco raccoglie seicento specie fioristiche d’alta montagna.
    Privilegia invece l’aspetto estetico il giardino roccioso di Castel Savoia, in val di Gressoney, nella quale ogni balcone è un piccolo orto botanico e ogni costruzione si integra perfettamente con l’ambiente; anche quelle sperdute fra i monti, sbrecciate e scoperchiate dalle intemperie, disposte a gradinata secondo la naturale pendenza del terreno, sono diventate elementi naturali del paesaggio, non diversamente dai resti dei castelli delle valli laterali, posti un tempo a dominio degli accessi ai valichi alpini. A fondovalle li vediamo invece trasformati in confortevoli palazzi residenziali, oggi mete turistiche di forte richiamo. Così Issogne, con la fontana del melograno e le lunette a fumetti , vive e saporose: dame e menestrelli, canti e danze, ma anche soldati che bisticciano, servotte che spettegolano, il cane che si spulcia, il gatto che arraffa le frattaglie; Fenis prototipo del castello nell’immaginario collettivo: i suoi ritrovati difensivi non gli impedirono, nel ‘700, di essere occupato da maiali e galline vaganti per i saloni affrescati; Verres, a monoblocco cubico, che riapre annualmente le porte ai personaggi del carnevale storico, incentrato sulla figura della femminista Caterina di Challant; Graines, un nido d’aquila arroccato sulla val d’Ayas, dove non difettava però una certa galanteria: per evitare che il riverbero del sole dei vicini nevai iscurisse le fattezze esangui delle castellane (guai ad abbronzarsi come volgari contadine), corvées di valligiani provvedevano a spargere carrettate di terra sulla neve; Sarre, oggi museo di casa Savoia, già casa di caccia di Vittorio Emanuele II, che nel 1869 aveva incaricato il suo intendente di acquistare il castello sulla destra della Dora, all’ingresso della valle di Cogne (Aymavilles), e si ritrovò invece proprietario di quello sulla riva opposta. Il funzionario ignorava l’esistenza di una destra orografica .
    E infine Bard, porta storica della Valle d’Aosta, a picco sulla Dora, che ricorda nell’aspetto un monastero tibetano: nel maggio del 1800 bloccò l’Armée napoleonica e ritardò di 15 giorni lo scontro con gli austriaci a Marengo. Inoltre vi passò un mese agli arresti il tenente del genio Camillo Benso Conte di Cavour.
    Attualmente sta completando la sua ennesima ristrutturazione, che lo vedrà soprattutto come centro di studi sulla montagna e museo di se stesso.