Un giorno che Papa Giovanni Paolo II era in vacanza in Valle d’Aosta, andò a fargli omaggio un coro di lassù. Quando cominciò a cantare “Signore delle cime”, il Papa esclamò “Questa la so anch’io”. Ma nella sua Polonia, molti cori la intonano così: Bóg nieba, Pan szczytów… Due sole strofe, naturalmente, perché la terza, che i miei Crodaioli non propongono, non è mia: è stata scritta da un caro amico ormai salito nel silenzio di Dio, Rolando Moro di Carmignano di Brenta.
Alla parete di un rifugio dell’Adamello c’è una versione molto poetica in cinque strofe che io non ho scritto. In Austria e in Germania, il mio canto l’ho ascoltato in diverse versioni: Mein Gott im Himmel…, Schöpfer des Himmel…, Herrliche Berge…, e so che tra le montagne si intona anche nei matrimoni. Una volta che l’ho ascoltato dalle parti di Linz, ho telefonato a mia mamma dicendole: “Mamma, non solo nei funerali…”. Quando c’è stato il tragico incidente delle Frecce Tricolori, al funerale, con la mia commossa adesione, hanno cantato “Dio del cielo, Signore delle ali…”. E potrei continuare nei racconti, dall’Australia al Giappone, dove sono andato più volte a suonare. In Grecia, con il mio coro, l’ho cantato con una traduzione del fratello del presidente Peraro della sezione degli alpini di Verona che è un brillante diplomatico. Posso dire che il canto ormai non mi appartiene più. A Rovanjemi, in Finlandia, lungo il Circolo Polare Artico, il maestro Heikki Vaananen ne ha fatto una sofisticata elaborazione elettronica. Non mancano le versioni sinfoniche per coro e orchestra. Il maestro Scimone dei Solisti Veneti mi ha chiesto di elaborarlo, come fosse una nuova composizione, per il suo prestigioso complesso, dove ho suonato per tanti anni. Non mancano, e mi piacciono tanto, le versioni Rock o con armonie avveniristiche. I canti che ho fatto, e sono più di cento, hanno preso le più diverse strade. Del resto, anche “Joska la rossa”, con le parole del fraterno amico Carlo Geminiani, viene intonato nelle nostre Adunate come se fosse un canto tradizionale. E si può solo immaginare la mia felicità. La prima volta l’ho cantato con I Crodaioli all’Adunata di Verona nel 1964. C’era Giulio Bedeschi, che è nato al mio paese, Arzignano, insieme al giornalista Egisto Corradi che alla fine disse “Questa storia camminerà a lungo con gli alpini”. Una sera, a Lusiana, il paese di Vittorio Brunello, alla fine di un concerto dove avevamo cantato “L’ultima notte degli alpini”, ancora con le parole di Carlo Geminiani ispirate dal libro “Centomila gavette di ghiaccio”, Mario Rigoni Stern mi sussurrò: “Bepi, quando sarà il mio tempo, ti prego di cantarmi Cammina cammina…”. Poi, si sa, “quando è stato”, e sono passati appena cinque anni da quel giugno, da forte montanaro, da alpino, il Sergente nella neve si è fatto accompagnare al cimitero dalla sola famiglia, nel silenzio della prima luce dell’alba.
Bepi De Marzi – Vicenza
Caro Bepi, l’arte, quando è autentica, ha una sorgente da cui proviene, ma poi non appartiene ad alcuno. È patrimonio dell’umanità. Tu dici: «Il canto non mi appartiene più». Parli del testo, ovviamente. Ma io aggiungo: tutte le tue opere non sono più tue. Hanno il respiro del tuo genio creativo, ma sono diventate di tutti. Io le ho cantate, intonate da compagni di viaggio, in Siria, Giordania, Turchia… Non era importante la qualità dell’esecuzione, non essendo alcuno di noi coinvolto in qualche coro. Ciò che era importante è che ci facevano sentire italiani e amici. Se poi, caro Bepi, vuoi che ti faccia una confidenza personale, anch’io vorrei “Cammina, cammina…”. Ogni volta che la ascolto, sono lacrime vere. Di commozione, di gratitudine, di condivisione morale, di rabbia… e di profonda pietà umana e cristiana.