La Grande Guerra, in 38×27

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    C’era una volta… la Grande Guerra. Combattuta nelle trincee non meno che nelle retrovie del Paese. Non c’era ancora la televisione a portare la gente nel fuoco dell’inferno e la radio era privilegio di pochi. Gli Stati Maggiori coinvolsero i migliori grafici per tappezzare il Paese di manifesti che demonizzavano il nemico e spronavano i cittadini alla vittoria. I giornali – quotidiani e riviste – non furono da meno, avendo sottomano una schiera di giornalisti dell’area futurista che glorificavano la guerra come unica igiene e motore del mondo. Gli stessi giornalisti che, una volta andati alla guerra, scoprirono che era brutta e cattiva, lo scrissero e furono emarginati dal regime per tutto il periodo del Ventennio. A anche un po’ dopo.

    “Raccontare una guerra non è meno importante che combatterla, specialmente se dura 41 mesi e coinvolge milioni di uomini e milioni di famiglie delle quali è indispensabile conquistare il consenso. Era una guerra diversa da quelle del Risorgimento, che si svilupparono e conclusero nell’arco di qualche settimana o qualche mese, ed ebbero un impatto territoriale limitato.

     

    Questa era una guerra complessa e senza limiti, che vedeva impegnata ogni risorsa umana, produttiva, tecnica del Paese coinvolto. I grafici avevano il compito di colpire l’immaginazione con i loro manifesti, sullo stile – solo più crudo – dei tanti che usavano per annunciare spettacoli e pubblicizzare prodotti. Dovevano rendere accettabile la morte, temperare l’angoscia di chi era lontano dal fronte, aiutare a resistere fino alla immancabile vittoria.

    Fra costoro, si distingue Achille Beltrame, che dalla copertina de La Domenica del Corriere portò per ben 4.622 volte la guerra nelle case dell’italiano di mediabassa estrazione sociale. Lo fece con grande senso della comunicazione di massa, come racconta Gianni Oliva nel suo bel volume dal titolo “La Domenica del Corriere va alla guerra”. La stessa dedica dell’autore spiega la condizione psicologica e sociale degli italiani al momento dell’entrata in guerra: “A mio nonno Giovanni che non ho mai conosciuto, classe 1881, falegname e contadino piemontese, mandato a combattere sull’Altopiano senza sapere perché”.

    Era impresa difficile, quindi, disegnare la guerra privandola dei suoi orrori, in una rivista che voleva essere popolare appendice domenicale di un quotidiano che si rivolgeva a lettore-tipo medio-alto borghese e che aspirava a diventare “il settimanale degli italiani”. Eppure Beltrame riuscì a colorare, in una tavola 38×27 centimetri, una guerra non voluta e non capita, l’assalto alla trincea nemica, le pietraie del Carso e i caduti sulla neve, lo slancio ardito dei nostri soldati sospesi nel superare le trincee per andare incontro al nemico: immagini che fecero presa sull’immaginario del lettori per non dimenticare il sangue e le migliaia di morti. Siamo lontani dalla realtà, come racconta Oliva riportando uno stralcio del generale Alfred Krauss, capo di Stato Maggiore della 5ª Armata schierata sull’Isonzo: “I reparti d’assalto procedevano sui campi di cadaveri dei predecessori, giungevano alle prime linee della testa di ponte dove erano annientati dal nostro fuoco e poi retrocedevano distrutti per lasciare il posto a nuovi attaccanti…”.

    Nelle tavole domenicali ci sono pochi nemici morti, la cui immagine è superata dai vincitori, protesi nell’assalto, magnanimi con i prigionieri, perfino spavaldi con qualche villanella, sempre solenni davanti ai monumenti imbandierati, schierati nel celebrare la vittoria. Intercalate alle tavole, Oliva ci racconta una guerra vissuta all’interno del “Corriere” di Luigi Albertini, un protagonista della storia del giornalismo italiano che ebbe tante intuizioni felici: quella di scegliere Achille Beltrame fu una di queste.

    Giangaspare Basile

    GIANNI OLIVA

    La domenica del Corriere va alla Guerra – Il 1915-18 nelle tavole di Achille Beltrame

    Pagg. 131, euro 18, Paolo Gaspari editore, Udine 0432/512567, www.gasparieditore.it