I tre dell’Ave Maria

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    In Valsesia, dove le loro gesta erano sulla bocca di tutti, venivano chiamati i “tre dell’Ave Maria”. Erano legati tra loro da un sentimento vero e duraturo, amici che ogni volta si ritrovavano in paese per un breve periodo durante l’inverno e diventavano una valanga che tutto travolgeva e coinvolgeva. La notizia del loro ritorno si spargeva in un lampo, costringendo addirittura i padri più protettivi a confinare nelle camere le figlie, così attratte da siffatti spiriti liberi. Erano giorni di festa per i tre compari e, si sa, la vera festa significa baldoria e trasgressione. Gli alagnesi perdonavano loro questi eccessi in quanto questi figli esuberanti rappresentavano, con le gesta da loro compiute nella vita militare, l’essenza della vita in montagna, dura e ricca di sfide che tempra gli uomini e le cose. Parliamo di due Alpini doc, Giacomo Chiara e Giovanni Gualdi, e dell’aviatore Alberto Giacomino.

     

    Giacomo Chiara, chiamato Jokku in dialetto Walser, era nato il 28 novembre 1915. Come tutti i ragazzi di Alagna, in fanciullezza e in gioventù scorrazzava sul Monte Rosa che conosceva come fosse casa sua. Seguendo le orme del padre che era stato gestore del rifugio Gnifetti e della Capanna Margherita, iniziò il lavoro di guida e venne presto notato da alcuni ufficiali che saranno tra i fondatori della Scuola Militare Alpina di Aosta. Fu così che venne chiamato alla Smalp come istruttore. Tra le sue “burbe” passò anche il grande Mario Rigoni Stern che lo ricordò più volte nei suoi scritti, particolarmente ne “L’ultima partita a carte”. Per Rigoni Stern il sergente maggiore Chiara era in assoluto il miglior scalatore che avesse I tre dell’Ave Maria mai conosciuto, bravissimo anche sugli sci ma mai quanto sulla roccia. Forte e generoso rappresentava il montanaro nella sua vera essenza. Chiara fu anche la guida di fiducia della principessa Maria Josè, moglie del principe Umberto, la quale ogni volta che si recava al castello di Sarre richiedeva la presenza di Jokku per le sue escursioni.

    Fu istruttore militare nel 1938 presso il battaglione Duca degli Abruzzi ad Aosta, istruttore al battaglione Monte Cervino a Ivrea fino al ’40, quando prese parte alla Campagna greco-albanese. Tra le sue imprese alpinistiche ricordiamo quelle sull’Aguille Noire de Peuterey, in diretta con Perenni, Stenico e Grandi sulla punta Bik nel 1937, il Ciarforon con il sergente maggiore Catinelli nel luglio 1938 e la diretta per gli strapiombi del Furggen con Perino e Carrel nel 1942. Nel gennaio 1945 sposò Irma Enzio e pochi mesi dopo, il 24 marzo 1945, scomparve sui ghiacciai del Monte Rosa. I contemporanei nutrirono molti dubbi sulla sua morte; qualcuno rivelò che Chiara faceva la staffetta con i comandi partigiani ubicati in Svizzera, portando valori e documenti riservati. Dopo 18 anni il ghiacciaio restituì il corpo e parte dell’attrezzatura, ma la indagine criminologica all’epoca era ancora inadeguata rispetto a quella dei nostri giorni, per cui tutto finì lentamente nell’oblio.

    Altro Alpino tosto fu Giovanni Gualdi (Alagna, 26 maggio 1904 – Valtournenche, 24 giugno 1981). Gualdi prese parte alla Campagna di Russia per la quale fu insignito della Medaglia d’Argento al V.M. Ma di lui ricordiamo soprattutto la partecipazione alla spedizione del 1928, diretta dal capitano Sora (detto Muscoletti) al Polo Nord per recuperare i superstiti della spedizione Nobile. Di ritorno dal Polo, Gualdi sbarcò dalla nave “Città di Milano” al porto di La Spezia il 20 ottobre 1928 e rientrò in valle, dove fu accolto dall’allora podestà di Varallo Sesia, Vittorio De Marchi che, da buon montanaro, gli donò una bottiglia di grappa (bottiglia che Gualdi regalò all’amico Leo Colombo di Varallo che la conservò a ricordo dell’impresa). Fu festa: la banda musicale suonò per tutto il paese e negli alberghi Cannon d’Oro e Parigi. Tutta la valle volle dimostrare al proprio figlio la riconoscenza per quanto fatto per la Patria e per aver portato alla ribalta il nome della Valsesia. Per un lungo periodo l’avventura di Gualdi entrò nei discorsi di piazza e alcuni degli oggetti, bizzarri per l’epoca, che aveva portato da una terra tanto lontana divennero cimeli, come per la pelle d’orso bianco che uccise tra i ghiacci e che venne esposta nella vetrina di un negozio a Varallo.

    Il trio valsesiano dell’Ave Maria è completato da Alberto Giacomino (4 settembre 1903 – Rimini, 19 novembre 1987). Alberto veniva da una vecchia famiglia di Riva Valdobbia, il padre Michele emigrò per lavoro per lunghi periodi e la madre Teodora Mognetti fu maestra elementare ed educò tre generazioni di rivesi; era quindi un figlio della montagna e nulla faceva presagire la passione che lo porterà ad essere uno dei migliori piloti della sua generazione. Partecipò con Balbo e De Pinedo, nel 1929, alla crociera con i famosi S-55 “Santa Maria” che sorvolò Atene, Costantinopoli, Varna, Odessa, Costanza e Taranto. Fu collaudatore degli idrovolanti e si specializzò nel lancio da nave con catapulta; fu tra l’altro l’unico ad effettuare un lancio notturno con tale tecnica. Grazie a questa esperienza e a quella maturata comandando stormi da bombardamento notturno e diurno fu inviato in Giappone, allora nostro alleato, per addestrare i piloti all’utilizzo dei bombardieri Fiat BR-20. L’addestramento fu tenuto in Manciuria, con temperature di 40° sotto zero; non vi fu alcun incidente e il corso diede al Giappone una generazione di ottimi ufficiali piloti. Un lavoro talmente buono che perfino l’imperatore Hiro Hito lo insignì dell’Ordine del Sacro Tesoro: «Io, il Tenno del Grande Impero Nipponico, di Stirpe che opera nei secoli per grazia divina… ecc., ecc… ho incaricato l’Ufficio delle Decorazioni al Merito Meyi di 7° Grado, di conferire al comandante dell’Aviazione Italiana Alberto Giacomino la decorazione della Zuihò, esprimendo così la mia volontà di benevolenza».

    Per i fatti d’arme che lo videro partecipe nella seconda guerra mondiale, gli vennero conferite una Croce di Guerra sul campo, un encomio personale, tre croci di guerra e la Medaglia d’Oro di lunga navigazione aerea. Combatté a Tobruk, Bengasi, Grecia, Jugoslavia, Albania e Mediterraneo Centrale. L’8 settembre 1943 si trovò all’aeroporto di Gioia del Colle e non volendo consegnarsi ai tedeschi fuggì su di uno sgangherato Saiman fino all’aeroporto di Manduria, in mano alleata. Collaborò quindi con gli Alleati partecipando a missioni speciali dell’VIII Armata Inglese ed operando con il Servizio Segreto Americano che gli attribuì diverse attestazioni per i servizi resi. La sua vita militare terminò nel 1948, anno in cui, dietro sua domanda, lasciò l’aeronautica.

    Aldo Lanfranchini