A Pordenone il contagio continua

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    Rientro nella mia stanza dopo l’ammainabandiera e il passaggio della stecca agli amici de L’Aquila. Ci accompagnano fuori da Piazza XX Settembre tanti silenziosi eroi. Sono presenti anche loro, benché solo nelle icone dorate delle medaglie che ondeggiano sul Labaro. Hanno sfilato con noi, secondo quella logica della memoria, che si espande come un eco, per sussurrare al cuore delle generazioni che avanzano e che non sapevano. Anche la pioggia ha cessato di fare storie. Ma solo qualche ora prima ce l’aveva messa tutta per mettersi a gamba tesa contro il passo cadenzato degli alpini. Chissà perché.

    Invidia per uno scenario che per un giorno aveva fatto abbassare gli occhi dal cielo alle strade pavesate di Tricolore? Mestizia per un giorno vissuto come una struggente storia d’amore che andava concludendosi? Evocazione scenica di giorni passati, quando la neve, la tormenta, i ghiacci e le nude rocce facevano scrivere agli alpini pagine epiche della loro storia gloriosa? Ora la pioggia ha allentato il morso e le emozioni, nascoste sotto la giacca goretex, escono allo scoperto per diventare racconto. Insieme alle emozioni della gente, raccolte per strada.

    Pensieri in libera uscita, come quelli di Sabrina di Pordenone che pure dichiara di avere “avversione per le armi, diffidenza per il cameratismo e fastidio per chi si fa del male con l’alcol”. “Mi è piaciuto l’incontro con gli italiani di altre Regioni, tutte quelle inflessioni dialettali, l’orgoglio di rappresentare la propria piccola, piccolissima parte di mondo e la voglia di condividerlo con gli altri… Puro spirito di appartenenza, così straordinariamente e semplicemente umano”. Poi aggiunge: “Non vedevo l’ora di vivere questa prima volta. Perfino davanti al guardaroba, ero lì che mi chiedevo come potevo anch’io “giocare” all’adunata degli Alpini”.

    Giocare è un verbo importante, costitutivo dell’essere umano. La società l’ha rimosso, rilegandolo nei confini dell’infanzia e della fanciullezza. Eppure giocare è verbo dell’uomo. È gratuità, è gioiosa voglia di stare insieme superando i limiti, quelli delle differenze, dell’utilitarismo, del proprio ripiegamento egoistico. Era del resto quello che aveva detto l’Ordinario militare durante la Messa, ricordando che gli alpini sanno portare quella globalizzazione degli animi continuamente aggredita dalla globalizzazione dei mercati. Una globalizzazione dei cuori che ha superato anche le barriere impenetrabili del carcere di Pordenone, dove il giovedì prima dell’adunata si è esibito il Coro ANA di Oderzo, diretto da Claudio Provedel. Scrive un detenuto: “Vorrei ringraziare per avermi concesso di cantare con il Coro alpino. Era il mio sogno… Per tutto il giorno mi sono sentito di nuovo libero e ho visto davanti a me tutte le mie montagne”.

    Parole bellissime, come l’idea di libertà che fiorisce dall’animo anche tra il tintinnio dei chiavistelli. Libertà che si traduce in fierezza, in quello scenario di strade quasi fatte apposta per rendere agile lo sfilare degli alpini di ogni parte, come un fiume inarrestabile. Fierezza di uomini, che offrono il viso alla pioggia e alla grandine, come a sfidarla, davanti al loro presidente nazionale, anch’egli immobile, con il braccio alzato dentro cui scivola l’acqua, a salutare la sua “famiglia” che passa. Un momento di comunione indicibile, perché la verità del gesto riposa dentro al petto e ha il linguaggio silenzioso dei gesti degli uomini maiuscoli.

    Anche il vescovo di Pordenone è lì, fradicio, a vedere i suoi concittadini che passano. È lì dal mattino. “Se si bagna la mia gente, perché io dovrei starmene all’asciutto?”, ci dice sorridendo.

    Bruno Fasani