Beppe Parazzini

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    Dovessimo iscriverlo ad un club, lo metteremmo dritto tra i “duri e puri”. Beppe Parazzini ha la dialettica di chi conosce i colori pastello, ma nell’animo si intuisce subito che privilegia i colori decisi. Quelli che dovrebbero essere i colori degli alpini. Non necessariamente colti, ma umanamente veri. Quelli che ubbidiscono non perché hanno la testa storta, ma perché sanno che obbedire è la cosa più facile quando è utile a far funzionare la casa e stare bene insieme. Ama gli animi ruspanti, che spesso nascondono, dietro una forma approssimativa, grande ricchezza morale e intellettuale. Soprattutto crede che il vero progresso sta nel coraggio della nostra identità. Che viene da lontano e che rimane attualissima nei suoi enunciati.

    Presidente non dirmi che hai paura del nuovo! Forse sarebbe ora che dicessimo forte che novità non è sinonimo di progresso. Chi pensa che il progresso sia legato al nuovo, vuol dire che non lo fa dipendere dai contenuti ma dalla cronologia. Ogni cosa nuova va vagliata e soppesata. E solo dopo ci dirà se davvero fa crescere o arretrare.

    La prima cosa bella che ti viene in mente pensando all’Ana… L’Adunata di Milano. Pensavo di viverla in scioltezza, con curiosità e senza tanti impegni. Poi la morte di Cesare Lavizzari mi ha portato a subentrargli, con tutte le fatiche organizzative che l’impegno richiedeva. Oltretutto, si aveva il sentore che gli alpini avessero delle riserve sulla scelta di Milano. Devo dire che il risultato ha abbondantemente smentito questi timori.

    Che cosa ha reso possibile un simile successo? A livello organizzativo abbiamo trovato tanta professionalità, anche nelle varie istituzioni che hanno collaborato. E poi la presenza degli alpini con la loro capacità di contaminare l’ambiente con quello che si portano dentro. Le Adunate non sono fatte per essere belle, ma per il piacere di stare insieme.

    Ma c’è un’adunata ideale che vorresti progettare? Tornerei sull’Altopiano di Asiago. Tra i monti per vivere lo spirito alpino vero. Magari cominciando dai ricoveri per la notte. Tante tende e tanta essenzialità secondo lo spirito che ci anima.

    Quali sono secondo te le difficoltà che l’Ana ha incontrato e incontra nel suo cammino? Ogni epoca ha le sue fatiche. Dopo la Prima Guerra mondiale la fatica fu quella di organizzarsi in Associazione. Dopo il ’45 non sempre furono sereni i rapporti tra chi aveva vinto la Prima Guerra e chi aveva perso la Seconda. Oggi la fatica è che lo Stato, negando la leva, di fatto ci impedisce di essere una sorgente rigeneratrice di energie per il Paese.

    A questo aggiungerei la sfida che ci viene da una certa cultura contemporanea, molto individualista e senza senso civico… A questa sfida bisogna rispondere dicendo chi siamo. Dobbiamo portare fuori nei fatti, prima ancora che con le parole, la nostra filosofia di vita. Partendo da alcune domande: il nostro Statuto Nazionale è ancora valido? E, se sì, dov’è il rischio che sia disatteso? E come facciamo le nostre attività? Da alpini che rispettano le regole associative o in… libera uscita, quasi fossimo un ente benefico. Siamo una associazione d’arma con delle regole che esigono rispetto e uno stile preciso.

    Cosa incentivare perché tutto questo accada? Per una volta tanto vorrei partire dai Capigruppo. Bisognerebbe far loro un monumento, perché sono loro l’asse portante dell’Ana. Più si sale più serve l’apparato. Ma nella vita di Gruppo è il carisma e l’umanità che contano. Fare il Capogruppo domanda una infinita serie di qualità umane: deve saper assorbire gli urti, adattarsi, essere ruffiano al punto giusto a fin di bene, convincere chi critica, essere deciso quando ci vuole coraggio… Non è facile, ecco perché non ha senso cambiare quando il Capogruppo funziona.

    Tu sostieni che è molto importante coltivare le relazioni con la politica, non per esserne assimilati, ma per portare avanti la nostra identità. Una delle cose che ricordo con maggiore nostalgia della mia Presidenza è stata l’istituzione dell’Associazione parlamentare “Amici degli alpini”. Avevamo più di cento parlamentari che condividevano i nostri progetti.

    Questo però non vi aiutò a conservare la leva obbligatoria. Come ci dissero allora, bisognava sconfiggere il partito delle mamme.

    Cioè? Quelle mamme che chiedevano di smetterla di mandare via da casa i loro ragazzi, a farli soffrire facendo la naja.

    È finito questo partito? Non ancora. Ma il declino è iniziato e quando le mamme saranno in maggioranza dalla nostra parte (i papà contano poco) allora risolveremo il problema.