Giacomo Alberti, medaglia d’Argento al Valor Militare

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    Domenica 13 giugno a Carcare, in provincia di Savona, c’è stato uno dei tanti raduni alpini che nell’arco dell’anno segnano il calendario della nostra Associazione. È pur vero che il presidente della sezione di Savona, Mario Gervasoni, coadiuvato dal consigliere nazionale Luigi Bertino e dal capogruppo Venanzio Ferri, ha fatto le cose in grande, mettendo insieme la cerimonia della consegna del Premio Alpino dell’Anno con l’inaugurazione di un monumento e l’intitolazione di una piazza alla Divisione Cuneense.

    Ma a dare un significato particolare sono stati i reduci della Divisione Martire, riuniti sotto I’ombra di un grande albero a guardare con aria distaccata l’andirivieni degli addetti all’organizzazione e pronti a recuperare un guizzo di ritrovata gioventù quando la fanfara ha eseguito le marce dei tempi della tradotta. Sentiamo il racconto di uno di loro. Giacomo Alberti classe 1921, battaglione Pieve di Teco, caporal maggiore istruttore, Medaglia d’Argento al Valor Militare, è un vecchio alpino dall’aria quasi dimessa ma lo sguardo vivo, intelligente.

    Per niente imbarazzato, porta sul risvolto della giacca una decorazione che sappiamo tutti cosa significhi quando la si riceve da vivo. Non ha sicuramente I’aria dell’eroe o del condottiero, anche se nella vita civile è riuscito a mettere in piedi un’attività industriale nel campo caseario di tutto rispetto. Racconta di essere partito per il Caucaso, come tutti allora credevano, convinto che i tedeschi fossero invincibili, così almeno sosteneva la propaganda di regime, e quindi di avere percorso cinquecento chilometri nella polvere e il sudore per una guerra già vinta. Fu all’inizio di dicembre che cominciarono a cambiare le cose e a nascere i primi dubbi.

    Non tanto perchè non erano arrivati a presidiare i monti del Caucaso e i pozzi di petrolio, ma perchè le pattuglie russe di notte si facevano sempre più attive e audaci e gli aerei con la stella rossa passavano con troppa insistenza sopra le loro teste senza praticamente incontrare resistenza. Lanciavano volantini e incitavano gli italiani ad arrendersi per non essere annientati. Sulle trincee scavate lungo il Don c’era l’ordine perentorio di non accendere di notte nemmeno una sigaretta e si arrivò perfino a vietare di cantare.

    A dire il vero a Natale, e soprattutto intorno a Capodanno, la voglia di divertirsi era proprio sparita, anche se il rumore della guerra vera era lontano e nulla si sapeva di cosa succedeva alle altre Divisioni dell’8ª Armata italiana, e tanto meno a Stalingrado. L’incursione dei carri armati a Rossosch diede un primo serio segnale che la situazione stava precipitando.

    Ma loro, gli alpini, restarono su quell’ansa ghiacciata del Don fino al 16 gennaio. Quando la Cuneense ricevette l’ordine di ritirarsi ogni Compagnia lasciò un plotone a copertura dei reparti in movimento. Fu così che Giacomo con il tenente Bruzzone ed il suo plotone restarono lì per un’intera giornata e quando, scaduto il tempo della consegna, tentarono di riagganciare il loro battaglione, questo era già lontano. Il col. Manfredi, comandante di reggimento, ordinò loro di aggregarsi al Ceva, che qualche giorno dopo, nonostante il disperato valore delle sue compagnie, nulla potè contro i carri armati russi e fu annientato.

    La dimensione della tragedia si rivelò in tutta la sua drammaticità alla vista dei morti, del materiale distrutto o abbandonato, del gigantesco ingorgo di uomini che con la Tridentina, cui nel frattempo si erano fortunosamente aggregati, cercò di rompere l’accerchiamento. Del suo plotone erano rimasti in cinque: tre effettivi e due portaordini sciatori. Il freddo, il sonno, la fatica e la fame si vivono e non si raccontano, se non per dire che alla fine furono ancora una volta i muli a salvare tanti alpini con le loro carni fumanti, mangiate appena tolte dalle povere bestie per non trovarsi in mano un grumo di ghiaccio.

    v.b.

    Pubblicato sul numero di luglio agosto 2010 de L’Alpino.