Rubrica aperta ai lettori.
OBIETTORE PENTITO
Chi vi scrive è un ex obiettore di coscienza, che mille volte si è pentito della sua scelta. Una recente legge permette di rinunciare allo status di obiettore, cosa che ho prontamente fatto, ma nessuno potrà mai restituirmi quei mesi di servizio militare che non ho svolto, e che ora mi mancano. Il mio può apparire un discorso strano, per qualcuno forse incomprensibile, ma gli anni passano e portano con sé un nuovo modo di vedere le cose. Io sono una persona completamente diversa da quel giovane che seppe troppo facilmente chiudere le porte all’esperienza della naia. Penso che a quell’età si sia comunque immaturi, e non si abbia la capacità di assumere delle decisioni pienamente consapevoli per il proprio futuro, non si ragiona con la propria testa ma ci si lascia influenzare dalla massa. Ed era un periodo in cui la leva obbligatoria veniva vista come il fumo negli occhi, tutti si ingegnavano per evitarla in qualche modo, si sentiva parlare di addestramenti ridicoli, soldati che oziavano nelle caserme, episodi di nonnismo che esulavano dalla goliardia per trascendere in un sadismo dalle conseguenze talvolta tragiche, reclute che giungevano al suicidio, ufficiali svogliati ed arroganti, appropriazioni indebite col tacito consenso di chi vedeva e non interveniva… tutto questo si diceva di quei dodici mesi di servizio prestati alla patria. Descrizioni non propriamente allettanti; era facile maturare la convinzione di essere di fronte alla prospettiva di vivere un anno d’inferno, o comunque un anno inutile, tempo buttato via. Ed io, figlio di un alpino e nipote di alpini, mi lasciai coinvolgere dal comune pensiero, e stimolato anche dagli incoraggiamenti di un amico che già si era dichiarato obiettore e svolgeva pertanto il servizio civile, scelsi a mia volta questa strada. Mi trovai in un centro di lavoro guidato, ed ero pienamente convinto che il tempo dedicato all’assistenza dei ragazzi diversamente abili sarebbe stato assai più utile a me stesso, a loro e alla società, che non trascorrere le mie giornate oziando o soffrendo in grigioverde. Ero in buonafede, ma mi sbagliavo. Non vorrei però essere frainteso: ho buoni ricordi del mio periodo di servizio, sono stato trattato molto bene e sono felice di aver dato il mio seppur modestissimo contributo ad inserire nel mondo del lavoro dei giovani meno fortunati di me. Mi sia perdonato questo sfogo, ce l’ho solo con me stesso perché nessun altro posso accusare. Sono trascorsi molti anni, durante i quali sono profondamente mutato come persona, sono cambiate le mie amicizie, sono diversi i miei ideali ed i principi in cui credo. E non a caso sono cambiato frequentando gente che a suo tempo ha fatto la naia e ne serba bellissimi ricordi; ho iniziato ad avvicinarmi all’ambiente degli Alpini, frequentando le loro adunate, partecipando alle loro cerimonie, intonando i loro canti, percorrendo i sentieri di montagna con zaino e scarponi, visitando i luoghi a loro sacri, assimilando il loro spirito di collaborazione, solidarietà, amicizia vera. E così ho iniziato a capire che impugnare un’arma non significa necessariamente essere un violento, indossare una mimetica non vuol dire cercare il conflitto, vivere in caserma non indica chiudersi al resto del mondo. Anche la vostra rivista mi ha aiutato in questo percorso; credo sia una pubblicazione meritevole, che diffonde un messaggio positivo, sa trasmettere l’essenza dello spirito alpino, offre la giusta visibilità alle penne nere di oggi, ma non fa mai cadere il silenzio su quelle di ieri. L’Alpino insomma, si guadagna i miei complimenti e la mia gratitudine, lo considero un ausilio prezioso, e mi auguro possa servire da guida a molti giovani indecisi, fornendo gli spunti per una scelta consapevole, che io 18 anni fa non ho saputo fare nel modo migliore Il servizio militare, un anno tra gli Alpini, ciò che al momento opportuno mi appariva come una minaccia da evitare, ora alla luce dell’esperienza e della maturità acquisita, assume le vesti di una grande opportunità gettata al vento. Mio nonno è reduce di Russia ancora vivente, l’altro nonno ormai andato avanti fu prigioniero in Germania e mi ha lasciato il suo cappello Alpino, che tengo in camera mia: osservo la penna ricca di significato, e penso con tristezza che non potrò mai fregiarmi di un così glorioso copricapo; potrò essere Alpino nello spirito e nei comportamenti, ma non lo sarò mai a pieno titolo, e questo per me è motivo di grande, profondo rammarico. Inviterei tutti i giovani, benché non più obbligati a farlo, a non privarsi dell’esperienza di un anno nelle Forze Armate, negli Alpini in particolare.
Oscar Conte Castelcucco (Treviso)
INCONTRANDO I GIOVANI
I giovani sono sempre stati interlocutori privilegiati degli alpini. Quando eravamo nei territori come truppe di occupazione, durante i tristi periodi della guerra, lontani dalla patria, i ragazzi di ogni età venivano ai nostri accampamenti e familiarizzavano con gli alpini fin dai primi momenti. E imparavano con grande facilità i primi elementi della lingua italiana, quale segno di vivo interesse alla nostra presenza. Erano gli ambasciatori dell’infelice popolazione che soffriva per prima a causa dello stato di guerra e, nel contempo, portavano anche a noi momenti di serenità e qualche sorriso. Tali sentimenti venivano sempre ricambiati con piccoli doni e con l’offerta di qualche piccola parte del rancio che, anche nei momenti più difficili, dividevamo con loro. Quando arrivava il momento della nostra partenza per le nuove missioni, si avvicinavano e volevano restare con noi fino all’ultimo momento: nel salutarci, ci prendevano la mano e se la portavano sulle loro testoline ricciute, chiara espressione di un desiderio profondo di protezione e di pace. Oggi, nel ricordo dei tempi bui della guerra, gli alpini amano incontrare i giovani. I pochi reduci che sopravvivono raccontano e rispondono alle tante domande che sorgono, nello spirito proprio della spontaneità, caratteristica dei giovani che vogliono capire e rendersi conto del ruolo storico delle Penne Nere. E andiamo nelle classi, ci sediamo in mezzo a loro e cerchiamo di spiegare quanto di meglio possa rappresentare il nostro modo di essere e di operare, con racconti e descrizioni delle varie tappe della nostra storia. Parliamo del passato, rappresentandolo con un linguaggio adatto all’età e assieme scopriamo e mettiamo in evidenza i valori che caratterizzano il nostro cammino. Vediamo allora brillare di nuova luce gli occhi dei nostri giovani amici che quasi vogliono toccare con mano quelle Penne Nere che sono oggetto di tanta ammirazione per quanto hanno fatto nei tempi di guerra, ma, soprattutto, per tutto il bene che stanno facendo alla società civile in tempo di pace. Ha inizio allora un dialogo che poi viene portato, sviluppato e arricchito da ciascuno nell’intimità della propria famiglia. Nasce così un filo prezioso, tenue all’inizio, che si rafforza sempre più nel tempo e fa sì che si formi la coscienza e la consapevolezza sulle quali si fondano i reali valori dell’alpinità. I pilastri della nostra società. Nell’animo dei giovani è sceso e si radica il germe prezioso dei concetti basilari come quello di patria, di altruismo, di solidarietà, fondamentali per l’educazione e la formazione e non ultimo per il ruolo che ciascun individuo assumerà nella vita.
Vito Mantia Combattente e reduce
Pubblicato sul numero di febbraio 2010 de L’Alpino.