Trieste… in tavola

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    Sostenere che nel mondo la migliore cucina è quella italiana porta al rischio di essere accusati di sciovinismo culinario . Ma non si è molto lontani dalla verità. Il vanto dei francesi in questo settore deriva anzitutto dall’introduzione oltralpe per merito di Caterina de’ Medici, andata sposa al re di Francia con, al seguito, botti di vino e otri d’olio d’oliva, oltre alla civiltà rinascimentale della seconda metà del cinquecento anche il meglio della cucina della sua Toscana. Il territorio italiano ai margini del confine orientale, a differenza delle altre regioni dello Stivale, ha subìto fortemente l’influenza della cultura culinaria austriaca, slava, mitteleuropea e mediorientale oltre, naturalmente, di quella veneta dalle quali derivano molti dei piatti tipici locali apprezzati e ricercati dai buongustai per la singolarità degli accostamenti, dei sapori e degli aromi. Spaghettate, pasticci, risotti e gnochi de pan, accompagnati da secondi piatti di pesce e di carne, sono nella normalità delle proposte, ma chi desidera conoscere le caratteristiche culinarie del posto il piatto tradizionale della cucina locale è una minestra, pietanza popolare tipica, un tempo, del pasto di mezzogiorno. È la jota. Pare abbia origine addirittura ai tempi di Carlo Magno. È un composto di fagioli e cappucci acidi cotto in un battuto di lardo ed aglio (detto el tazzà).
    Una variante prevede anche le patate. L’acidità naturale della pietanza ha la stessa funzione digestiva degli spaghetti in aglio, olio e peperoncino. Ma, attenzione! Premessa indispensabile alla preparazione della jota sono i capuzzi garbi, i cappucci (pugliesi) più sani e saporiti venivano preparati localmente da esperti capuzzeri i quali, provveduto all’accurato taglio degli stessi ed alla salagione, dopo averli abbondantemente irrorati di buon aceto di vino li collocavano per la dovuta maturazione, ben pressati in capienti botti o tinozze di rovere. Altre minestre più o meno leggere dei deschi locali sono: la pasta butada, un preparato di uova, formaggio grattuggiato e farina versato in brodo caldo e poi orzo e fasoi, fasoi e patate, verze e patate e risi e bisi. Va ricordato, anche se oramai poco richiesto, il suff, (minestra di semolino) povero intruglio che ha sfamato a malapena la gente nei tempi di guerra così come el brodo brustolà, fatto di strutto, farina rosolata, pepe e sale. I secondi piatti da sperimentare sono el golash, spezzatino di manzo, cipolla e peperone dolce, la fettina impanada, variante locale della più nota milanese, lo stinco de videl o de porco, pietanza tipica assieme alla selvaggina dei ristoratori del Carso triestino, da contornare con i chifeletti de patate, con le patate in tecia, o con il fresco matavitz, la valerianella. Squisiti naturalmente i piatti di pesce di pelago con particolare riguardo ai sardoni barcolani, pescati nella notte precedente nel golfo, in fronte al lungomare di Barcola, serviti fritti, impanadi o in savor come antipasto, nonchè orate, branzini e pedoci scotai. È ampia la disponibilità dei dolci da dessert, i golosezzi la cui regina è la crema carsolina, una pasticcera in sfoglia, le fritole e le pinze, un tempo prevalentemente pasquali, el strucolo de pomi, el strucolo in straza (cotto avvolto in un cannovaccio), tipico dei carsolini e poi la serie di dolci di origine tedesca o slava come le palacinche, i presnitz, le fave dei morti, consumate prevalentemente in autunno, ed ancora, i krafen caldi e la putizza da ammorbidire con lo slivovitz, una profumatissima grappa di prugne. (r.p.)