“Sporadici fatti d’arme”, ma fu un inferno

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    Negli atlanti storici il nome di Pljevlja è difficile trovarlo. Tutt’al più si saprà che è una ridente cittadina dell’alto Montenegro circondata da dolci colline e dalla lunga tradizione guerriera. Eppure, settant’anni or sono fu una bolgia infernale in cui si combattè per vincere o morire, senza alcuna regola tradizionale, ma una feroce e insidiosa guerriglia operata da forze che non avrebbero dato scampo né a prigionieri né a feriti. “C’era da rimpiangere – scriverà il compianto Vitaliano Peduzzi – l’onestà della guerra di Albania…”.

     

    La “sua” divisione Pusteria era stata inviata frettolosamente per sedare quella che sembrava una semplice rivolta da parte dei partigiani di Tito. Che erano numerosi, organizzati e armati più di quanto sapessero i nostri uffici d’informazione. Puntavano – dopo aver isolato i nostri deboli presidi di fanteria – su Pljevlja, un nodo cruciale di collegamento la cui importanza era strategica.

    A parte gli infiltrati in città e nelle campagne circostanti, Tito aveva ammassato dai cinque ai seimila uomini in 9 battaglioni scelti, composti da montenegrini che conoscevano perfettamente il territorio, con armi automatiche e mortai, oltre a battaglioni di rinforzo. Il contingente alpino era di circa duemila uomini: il comando della Divisione, 3 Compagnie del btg. Trento, una Compagnia del “Belluno”, una batteria del gruppo Lanzo, un battaglione misto del Genio alpino, una sezione “I” e Servizi.

    Tito aveva ordinato ai comandanti di svolgere una marcia di avvicinamento in gran segreto e agli infiltrati di nascondere armi e munizioni da utilizzare negli scontri che sarebbero avvenuti nella stessa città. L’attacco avvenne la notte del 1° dicembre, una notte senza luna: l’ideale per partigiani che sapevano come muoversi. Gli scontri furono durissimi e sanguinosissimi. Gli alpini rintuzzarono gli assalti, furono impiegati tutti gli uomini validi: telefonisti, cucinieri, scritturali che combattono con il moschetto e le bombe a mano…

    Peduzzi ricorderà il sottotenente Ferretti che prenderà il comando di un reparto rimasto senza ufficiali e cadrà combattendo, meritandosi la Medaglia d’Oro, e il cappellano dell’ospedaletto, il cappuccino padre Oliana, ucciso da un cecchino. Le posizioni sono perse, riconquistate, di nuovo perse e ancora riconquistate, così per sedici lunghissime ore che sono un’eternità, senza sosta. Alla fine, stremati, falcidiati, gli alpini prevalgono, i partigiani si ritirano lasciando sul campo di battaglia centinaia di morti. Peduzzi, dopo aver esaltato l’eroismo degli alpini della “sua” amata Divisione Pusteria, riconoscerà l’eroismo degli avversari, con l’amarezza profonda per la guerra che sacrifica i suoi figli migliori, da un parte e dall’altra.

    Per i bollettini del regime in Montenegro erano segnalati solo “sporadici fatti d’arme sul fronte balcanico”. I nostri Caduti saranno sepolti nel cimitero di Pljevlja, un cimitero che oggi non c’è più, rimosso negli anni seguiti alla fine della guerra dalle ruspe che hanno fatto spazio all’espansione della città. Nel 1983 il presidente della Repubblica Sandro Pertini e quello jugoslavo Mika Spiljak inaugurarono un monumento dedicato alla nascita, nell’ambito dell’esercito di liberazione jugoslavo, della Divisione partigiana Garibaldi, composta su base volontaria da reparti della Divisione Taurinense e Venezia. I superstiti rientrarono in Italia nel ’45: erano soltanto 3.500, dei 24mila organici delle due Divisioni. (ggb)