Sottrarre all’oblio

    0
    269

    Basovizza sabato 10 febbraio, Giorno del Ricordo dell’esodo giuliano-dalmata e delle vittime delle foibe, accoglie gli alpini con una radiosa giornata di sole. Il cielo è terso, ma fa freddo e soffia una bora moderata con alcune raffiche che scompigliano bandiere, vessilli, gagliardetti e le penne sui nostri cappelli. Io guardo con soddisfazione questa moltitudine che arriva e si sistema nelle zone assegnate sotto la guida dei nostri volontari di Protezione Civile. Avevo sperato di arrivare a 500 presenze come l’anno scorso, ma questa volta il risultato supera ogni più rosea previsione. 

    Da settimane rompevo le scatole a tutte le Sezioni per esortarle a venire a Basovizza, sapere in quanti sarebbero venuti, quanti vessilli e gagliardetti, per stabilire dove e come sistemarli. Ora eccoli qui: 34 Sezioni, 193 Gruppi, circa 850 alpini! Nelle loro rispettive aree sono schierate le altre associazioni d’Arma, le associazioni degli esuli e dei parenti degli infoibati, alcune associazioni patriottiche e circa 350 studenti provenienti con i loro insegnanti da varie parti d’Italia. Vicino al palco per la Messa c’è il nostro coro e l’area riservata alle autorità.

    All’ingresso dell’area sacra il picchetto armato rende gli onori al medagliere della Cavalleria, al Labaro dell’Ana e al gonfalone della Città di Trieste decorato di medaglia d’Oro al V.M. che entrano assieme al Gonfalone della Città di Muggia e vanno a prendere il loro posto. Inizia la cerimonia, semplice come gli anni scorsi: alzabandiera (a mezz’asta), deposizione delle corone d’alloro, onori alle vittime delle foibe e Messa officiata dal vescovo di Trieste mons. Crepaldi e accompagnata dal coro Ana Trieste “Nino Baldi”. Seguono i discorsi brevi e sentiti, in modo particolare mi colpisce quello del sindaco Dipiazza che per gli eccidi delle foibe denuncia con decisione la corresponsabilità diretta di un partito politico italiano che allora auspicava la cessione della Venezia Giulia a Tito.

    Con la mente vado al polesano Graziano che, gettato in foiba si salva arrampicandosi nottetempo su per le pareti del baratro, penso a Norma di Visinada violentata, torturata ed infoibata a 23 anni, a Dino di Parenzo che di notte carica moglie, suocera e figlioletta neonata su una piccola “batana” e si mette in salvo a Trieste dopo un’odissea da incubo; penso a Laura di Pirano che ha voluto raccontarmi la sua storia: «Mi chiamo Laura Predonzani, nata a Pirano nel 1943, ma vissuta da bambina a Sicciole (sobborgo di Pirano, n.d.r.), con i miei genitori e un fratellino. Nel maggio 1945 ero troppo piccola e non ricordo praticamente nulla se non quello che mi raccontarono i miei genitori. Due fratelli di mia madre, prelevati una notte, erano scomparsi. Non se ne seppe più niente: certamente infoibati! In quello stesso mese l’Ozna (polizia segreta di Tito) sequestrò un ragazzo che molti anni dopo divenne mio marito. Lo misero nell’ultimo dei camion pieni di italiani. Si avviarono verso l’altipiano carsico, verso Opicina, dove ci sono tante foibe, tra cui la famosa foiba 149. Ad un tratto arrivò un reparto di neozelandesi che riuscì a bloccare l’ultimo camion, quello col mio futuro marito, e fece liberare i prigionieri. Tutti gli altri, ed erano davvero tanti, non tornarono più. Mio padre aveva voluto rimanere a Pirano. Come tanti altri istriani della parte più a nordovest dell’Istria, anche dopo il 10 febbraio 1947 continuavano a sperare. Dopotutto il Trattato di Pace aveva stabilito che quella parte dell’Istria non fosse Jugoslavia, ma Zona B e, anche se Tito se ne era prepotentemente appropriato, si sperava sempre in un ritorno all’Italia. La speranza è l’ultima a morire. Le persecuzioni contro gli italiani però continuavano. Quando avevo 10 anni, nel 1953 quelli dell’Ozna vennero a prelevare mio padre e non si seppe dove lo portarono. Ritornò a casa quattro giorni dopo, ridotto in condizioni pietose. Mio padre non ne volle mai parlare. Quando, un anno dopo, l’Italia tornò a Trieste ma si fermò a Punta Sottile, ci rendemmo conto che le nostre speranze erano definitivamente morte e che Pirano non sarebbe mai più stata italiana. Mio padre allora decise di fuggire con la famiglia. Era una notte di maggio del 1955. A Trieste fummo alloggiati nel campo profughi di Campo Marzio. In sette persone: i miei genitori, noi quattro bambini (di cui due gemelli neonati) e la nonna, in un’unica stanza di 9 metri quadrati che fungeva da cucina e stanza da letto. Tutti insieme non ci si stava. I miei trovarono lavoro, io andavo a scuola alle medie, e poi andai a lavorare. Mio fratello più grande venne “smistato” in collegio nelle Marche… e la famiglia si divise. Solo nel 1962 riuscimmo a trovare un alloggio decente in via Donatello, la famiglia si riunì e terminò il mio calvario di piccola profuga istriana. A Pirano non ho più voluto tornare».

    La cerimonia a Basovizza volge al termine, gli alpini cominciano a defluire, chi diretto alla sua casa lontana e chi gradisce fermarsi con la nostra Sezione a mangiare un caldo piatto di “jota”, o preferisce una trattoria sul Carso o in riva al mare. Mentre anch’io mi avvio soddisfatto verso l’uscita pensando che gli alpini hanno fatto un bel lavoro per divulgare la triste storia delle foibe e dell’esodo alla popolazione italiana che per quasi 70 anni ne era stata volutamente tenuta all’oscuro.

    Mi incammino e sento un alpino che chiede ad un altro: «Ma qui siamo in Italia o in Slovenia?». Mi monta il sangue alla testa dalla rabbia e dalla sorpresa, ma poi mi calmo e mi rendo conto, con delusione, che no, non abbiamo fatto abbastanza. Troppi ancora non sanno. Dobbiamo fare di più.

    Dario Burresi
    darioburresi@alice.it