Tutti conosciamo la vicenda di Gavino Ledda, l’autore di “Padre padrone”, il quale attribuisce al servizio militare l’inizio del suo riscatto dalla schiavitù dell’analfabetismo. Ledda nasce il 30 dicembre 1938. Possiamo quindi collocare il suo servizio nell’Esercito fra il 1966 e il 1968. Gli anni dell contestazione. Proprio nel periodo storico in cui tradizione, cultura, scuola, famiglia, chiesa, istituzioni, venivano assalite da un’onda contestatrice incontenibile, Ledda vedeva nell’esperienza di leva, comune ai maschi giovani italiani fin dall’Unità d’Italia, l’occasione fondamentale della sua vita per uscire dall’isolamento della Sardegna.
Analfabeta fino all’età adulta, perché strappato alla scuola dal padre dispotico pochi mesi dopo l’inizio della frequenza della prima elementare, egli attribuisce all’esperienza della leva il merito di avergli aperto un mondo che gli sarebbe stato altrimenti precluso e di averlo affrancato dalla più atroce e sottile delle schiavitù. Quanti Gavino Ledda ci sono stati dall’Unità d’Italia fino all’abolizione della leva?
Non sappiamo, non mi risulta siano state fatte indagini. Al di là tuttavia di questo caso limite, abbiamo però i riscontri dell’esperienza e della memoria di tanti amici, più anziani e coetanei. Anche i più critici, quelli che proprio la disciplina non la tolleravano, riconoscono a quell’esperienza, se non altro, il valore fondativo di una propulsione ideale: il senso di appartenenza, l’esplorazione di un’Italia ancora poco nota, la maturazione di un immaginario generazionale di concretezza e positività.
Sotto le armi, poi, oltre che a obbedire si imparava anche a comandare, da parte dei più responsabili, e comunque ci si misurava con situazioni che favorivano la maturazione relazionale e umana. Insomma: se “la fonte della sicurezza di sé” non si poteva rintracciare esclusivamente nel servizio militare, quell’esperienza era tuttavia importante e nei più apriva a una stagione di maggior consapevolezza, di responsabilità. Era, quella, un’Italia semplice, ancora. Fino alla metà degli anni ’80 oltre il 50% della popolazione era impegnato in agricoltura. La Rivoluzione Industriale, prima, e il boom degli anni ’60, poi, avevano investito il Nord Ovest. Ma l’Italia rimaneva nel suo insieme ancora un paese agricolo, legato alle sue tradizioni, ai suoi monumenti, alle sue memorie, ai suoi riti collettivi.
Facciamo poi un piccolo esercizio di acrobazia cronologica: pensiamo che fra il 1987 e il 1947 c’era un intervallo di anni come quello che oggi noi del 2017 abbiamo con il 1977, mentre il 1917 era lontano come per noi oggi il 1947. Insomma per gli adulti della fine degli anni ’80, ieri, era appena finita la Folle Guerra, l’altro ieri era ancora in pieno svolgimento la Grande Guerra. Ebbene: nel quadro di questa ricostruzione cronologica, fatte le debite proporzioni, la leva obbligatoria veniva abolita in un momento che potremmo dire “accaduto un attimo fa”. Era il 2005: per certi aspetti sembra ieri, per altri sembra un’eternità.
Ieri cronologicamente, ma un tempo lontanissimo se guardiamo agli eventi e alle trasformazioni tecnologiche intercorse nell’ultimo decennio. Sono passati solo dodici anni, ma la differenza fra il dato reale e il percepito è impressionante. E dunque: di fronte alle situazioni problematiche che sempre di più ci è dato osservare nel panorama socioculturale del paese, in un contesto radicalmente diverso da quello nel quale la leva stessa è stata abolita, può ancora avere senso l’affermazione iniziale che costituisce il titolo di questa nostra riflessione?
In realtà il problema è di natura essenzialmente culturale ed educativa; dobbiamo cioè chiederci: nel quadro della formazione di un giovane italiano di oggi, ha senso ancora l’esperienza della leva obbligatoria? Di fronte a quelle che sono state dal 1991 ad oggi le esperienze delle forze armate nei diversi teatri internazionali di conflitto, soprattutto gli impegni del cosiddetto peacekeeping, i primi ad avere dei dubbi sull’esercito di popolo sono gli stessi militari, i quali hanno bisogno di personale altamente specializzato, permanentemente disponibile per un lungo periodo di tempo e, soprattutto, pronto ad affrontare rischi elevati, non tanto “per difendere l’Italia e darle la vittoria” (così recitava la poesia “Soldato Ignoto” che proclamavamo davanti ai “combattenti e reduci” in lacrime, presso i “Monumenti ai Caduti” il 4 novembre nella nostra lontana fanciullezza), ma per garantire equilibri politici internazionali, responsabilità di alleanze e intese su fronti complessi, dimostrare una efficienza tecnologica essenziale come supporto all’azione politica estera dell’Italia.
Questo nell’età di internet diffusa e pervasiva, nella stagione dei tablet, degli smartphone e di whatsapp, o, meglio, delle “madri-tigri di whatsapp” che fanno a pezzi la prima maestra che si sogni di sgridare il loro bambino perché si è comportato da piccolo barbaro (come del resto egli ritiene giusto, considerata l’adorazione fanatica di cui gode nella sua casa). Insomma nell’età nella quale educare i figli degli altri è diventata un’impresa quasi eroica, ebbene in questa età: chi è disposto ancora a credere alla generosa e ingenua dedizione a un ideale che sembra più lontano della luna?
Posto che non si possono liquidare i volontari che decidono di impegnarsi nelle nostre quattro Forze Armate bollandoli, con superficiale arroganza, dell’epiteto di “mercenari” e considerato l’impegno che da validi e responsabili professionisti pongono nello svolgimento di servizi umanitari di importanza straordinaria, rimane tuttavia il problema di come rigenerare quelle attività che in passato si presentavano quali naturali sviluppi dell’esperienza di leva. Questo soprattutto nel Corpo degli Alpini, che alimenta ancor oggi una sezione di basilare importanza nella configurazione dei volontari della Protezione Civile.
Ecco quindi che il problema della “identità nazionale” e del “senso di appartenenza” si ripropone di nuovo in tutta la sua urgenza. Se la retorica classica del valore militare, dell’amore per la patria e della abnegazione nell’obbedienza, ha lasciato il posto ai valori della competenza tecnologica, della professionalità e dello spirito di avventura, non si può tuttavia pensare che una nazione si regga a lungo senza ideali comuni e senza fondamento di valori condivisi.
In tale prospettiva è interessante valutare una nuova istituzione, che nel corso degli ultimi tre lustri ha preso dimensioni sempre più ampie; intendo parlare del Servizio Civile. Il numero di volontari avviati a questa attività dal 2001 al 2015 è di 349.066 unità. In particolare nel corso del 2015 i volontari impegnati nel servizio civile nazionale sono stati 35.331, di cui 34.924 in Italia e 607 all’estero (anche se sono cifre di anni diversi, non siamo lontani dal vero se le compariamo). Si tratta di numeri di tutto rispetto, dai quali si evincono due elementi positivi propri del mondo giovanile: la presenza di uno spirito di generosità estremamente positivo, e la disponibilità a impegnarsi per svolgere servizi utili anche per il proprio futuro.
Siamo però ancora molto lontani da una forma di partecipazione assimilabile a quella della leva obbligatoria. I giovani italiani fra i 20 e i 29 anni nel 2016 erano 6.296.890. In percentuale i ragazzi impegnati nel volontariato risultano essere lo 0,56%. E dunque il problema del ricambio esiste e non è solo un’impressione. Una associazione come l’Ana, che da anni si interroga sulle prospettive future, non può non trarre alcune conclusioni importanti da questi dati e dal quadro che siamo venuti delineando.
Un dato però emerge con nitidezza assoluta: nella società complessa e frammentata di oggi; globalizzata e cosmopolita; tecnologicamente sicura di sé, ma fragile sul piano psicologico; emancipata nei costumi, ma evanescente su quello dei valori; esigente e consapevole dei propri diritti, ma incredibilmente rozza e ignorante di tante conoscenze elementari che in passato facevano parte di una minima comune enciclopedia popolare fortemente calibrata su consumi condivisi e comunemente praticati, ma dissociata nell’immaginario collettivo e priva di ideali comuni, la prospettiva della continuità e della trasmissione dei propri valori e delle proprie vocazioni deve essere capovolta.
Non si tratta più di accogliere giovani dotati di un loro precedente patrimonio di esperienze nella compagine che aggrega le persone nella fase matura “dopo il tempo giovanile”. Si tratta piuttosto di andare incontro ai giovani, creando nuove occasioni di esperienza in un contesto che potremmo definire “di libero mercato”. Come nelle piazze dei mercati e nelle fiere i politici e i propugnatori di idee (anche legittime: pensiamo alla lega contro i tumori o alle associazioni di donatori di sangue o di midollo osseo) piantano i loro totem per diffondere il loro credo o il loro messaggio, così l’Ana deve ipotizzare modalità nuove per diffondere al sua vision dell’impegno per la società civile. Quella qui appena delineata potrà essere una delle modalità eclatanti di diffusione. Non la sola. Credo che sia invece necessario esplorare la possibilità di intessere alleanze con istituzioni che entrano stabilmente nel mondo giovanile. Ovviamente la più importante di queste è la scuola. In secondo luogo l’Università e gli Its (Istituti Tecnici Superiori, da non confondersi con gli Istituti di istruzione secondaria di secondo grado. Sono “scuole ad alta specializzazione tecnologica”, nate per rispondere alla domanda delle imprese di nuove ed elevate competenze tecniche e tecnologiche).
Si tratta di sottoscrivere protocolli d’intesa che consentano un’osmosi strutturale fra la fase dello studio e quella della partecipazione alle attività dell’Ana. Oggi il momento in cui i giovani fondano quella “sicurezza di sé” di cui abbiamo parlato nel Cisa di Biella e che ho preso come titolo di questo mio intervento, è primariamente ed essenzialmente la scuola, completata eventualmente dalla fase post-secondaria. è in quella direzione che, a mio giudizio, vanno spostati i punti di attenzione e le energie da investire.
Lasciando stare gli aspetti più strettamente educativi che già vedono impegnata l’Ana con la scuola primaria (elementare) e secondaria di primo grado (media), è piuttosto sulla promozione di intese nell’ambito del nuovo settore obbligatorio della Alternanza Scuola Lavoro (Asl) che possono essere sviluppate interessanti forme di coinvolgimento dei ragazzi dai 16 ai 19 anni in azioni di servizio, programmate e organizzate con gli istituti di istruzione secondaria di secondo grado (scuole superiori). In tale prospettiva è possibile valorizzare i ragazzi in molteplici attività proprie del volontariato alpino.
Dagli studenti dei percorsi tecnici di elettrotecnica e di meccanica a quelli dei professionali per la ristorazione, è possibile stabilire con le scuole una vastissima serie di piani formativi specifici, coerenti sia con le esigenze della scuola sia con le specifiche necessità della protezione civile e delle squadre di intervento rapido in situazioni di emergenza, senza contare tutte le iniziative di custodia e protezione ambientale che possono vedere impegnati i ragazzi dei percorsi finalizzati alla formazione degli operatori del territorio (ex geometri) e quegli degli istituti agrari e forestali. Persino gli allievi dei licei potrebbero trovare occasioni di salutare esperienza nella operazioni di tutela e valorizzazione del patrimonio artistico di montagna: dalle chiesette, alle trincee, dai capitelli alle malghe, e così via.
Eccoci dunque alla conclusione di queste nostre riflessioni. L’excursus che abbiamo sviluppato fra storia, sociologia, formazione e organizzazione non ci consente momenti di nostalgia. Certo, al mutare dei tempi, rimane sempre nell’anima, specie in quella alpina, la malinconia propria del tramonto, il brivido di chi assiste nella sera incipiente il venir meno del calore del giorno e sente acuta e struggente la nostalgia della fresca luce di mattini che sembrano perduti. Ma non è guardando al passato che si può costruire qualcosa di nuovo. O, meglio, bisogna attingere dal passato quei valori forti che hanno sostenuto generazioni intere in situazioni di difficoltà e hanno animato azioni generose e piene di attenzione per le comunità e per le singole persone.
Ora bisogna trovare le forme nuove nelle quali possano rinascere e riprendere il cammino, senza esitazione e incertezza, quelle passioni e quegli slanci senza i quali la società nella quale viviamo sarebbe meno umana e meno civile. Civitas et Humanitas, dunque, sono i nostri punti di riferimento, all’incrocio di una fase storica che esige ancora una volta, da tutti coloro che amano il sacrificio e i valori dell’uomo, passione e concretezza, vigore e lucidità, per costruire strade nuove verso altre vette di civile e solidale impegno.
Stefano Quaglia
stefano.quaglia@istruzioneveneto.it