Nell’editoriale di agosto-settembre “Il potente messaggio della montagna”, ho rivisto molto della mia giovinezza con i filò nella stalla della mia famiglia. Nel mio paese di La Valle Agordina, si può dire che ogni abitazione rurale avesse vicino la stalla con il fienile, qualche volta erano uniti. Nelle lunghe notti invernali, le nostre mamme e nonne, in attesa che le mucche gravide partorissero, filavano la lana, rammendavano vestiario e costruivano “scarpet” (calzature in pezza) per tutta la famiglia.
Assistendo ai loro dialoghi anche noi bambini venivamo a conoscenza dei pettegolezzi di paese. Di uomini se ne vedevano in giro pochi, erano presenti solo i boscaioli locali, gli altri erano per l’Italia a fare i seggiolai o nelle numerose miniere di tutta Europa. Pure mio padre, classe 1894, combattente alpino al Col dei Bos e sull’Ortigara, poi prigioniero in Slovenia, lavorava nelle miniere di Lavagna (Genova). La nostra cultura non poteva essere che alpina dato che i racconti sul tema, fra le numerose spose o vedove erano frequenti nei filò. Là, abbiamo imparato, oltre agli inevitabili “Rosari” in latino riadattato, tutte le canzoni alpine, con la certezza di avere un giorno anche noi il cappello con la penna. Il tutto si è felicemente avverato. Ancora grazie ai filò e ora al nostro direttore per averci ricordato una stagione felice che non vivremo più.
Giuseppe Crose La Valle Agordina, Belluno
Caro amico, sento tante analogie tra il tuo racconto e la vicenda della mia infanzia. Ma avverto anche la ricchezza di sfumature umane e intellettuali che questa storia ti ha lasciato dentro. A dimostrazione che non serve l’erudizione accademica per diventare sapienti ed esperti di umanità.