Quello che il Piave racconta

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    La 90ª Adunata celebra quest’anno la sua storia sulle rive del Piave. Non importa se al di qua o al di là, se a destra o a sinistra. Questa è materia per i benevoli sfottò di chi popola le sue sponde. Per i fatti qui accaduti e per la coscienza civile del Paese, il Piave fu il sussulto di coscienza dopo la sconfitta di Caporetto. Come ha scritto il giornalista Cazzullo, qualche tempo fa, «furono il Piave, il Grappa a trasformare una guerra che era meglio non fare, in una guerra fondativa. 

     

    Gli italiani non si conoscevano, non si capivano tra di loro, eppure dimostrarono che la loro nazione non era più un nome geografico, ma un fatto compiuto». Questo mese abbiamo scelto come immagine di copertina proprio una foto del Piave. È una foto che ha ben poco di artistico o di accattivante. Essa, più che la vita di un fiume, nel pieno della sua forza rigenerante, sembra rimandarci a una metafora. Quella di un Paese lambito dall’aridità, non solo economica ma anche umana e culturale.

    Un Paese che fa sempre più fatica a coniugarsi con l’idea della responsabilità collettiva, del bene comune, dei doveri avvertiti come condizione indispensabile per farlo progredire. Il tutto a vantaggio di una cultura del bene circoscritto che tende a prevalere su quella del bene comune. Per noi alpini le terre di questa Adunata costituiscono una sorta di appello morale inciso su una medaglia topografica. Grappa, Montello, Nervesa della Battaglia, Piave, Vittorio Veneto… nomi che raccontano, nella forza dei fatti, l’eroismo senza protagonismo di giovinezze mandate lì a combattere e a morire. Nomi che si prestano però anche alla retorica, quando serve imbellettarsi con la grandezza degli altri senza interrogarsi sulla propria coerenza.

    E allora ecco tornare a galleggiare sulle acque di questo Piave senza energia una domanda inquietante. Come sta l’Ana?Qual è lo spirito che unisce ancora i suoi iscritti? La provocazione non è funzionale a indurre pessimismo, quanto a prendere coscienza che anche tra noi alpini possono insinuarsi tossine che finiscono per indebolirne il Corpo. Sono cresciuto in una famiglia di poveri contadini, ultimo di cinque figli, in cui non ho mai visto mancare dalla mensa il pane della fraternità. Mancava magari quello vero, ma non quello del calore umano. Sono cresciuto sentendomi dire che nei rapporti umani ci voleva pazienza, che non bisognava coltivare rancore perché esso faceva male soltanto a chi se lo portava dentro.

    Sono cresciuto sentendomi dire che le vacanze non si potevano fare mentre gli altri fratelli chinavano la schiena sul lavoro. Quando la vita mi portò a fare l’alpino e a iscrivermi successivamente all’Ana mi fu spontaneo pensare che l’alpinità stava essenzialmente in questi consigli. Anche le altre diverse esperienze della vita mi hanno portato a considerare la relazione umana come l’essenziale di ogni vissuto, a cominciare da quello dell’Ana. Non è da alpini il burocraticismo, il legalismo, la partigianeria, quella che si nutre di pettegolezzo nei corridoi dove si gioca il protagonismo in cerca di rivincite.

    Da alpini è invece il gusto di guardarsi in faccia, per rompere sia pure nella diversità delle nostre posizioni, il guscio di silenzio che ci impedisce di comunicare, perché il silenzio si comincia a romperlo, iniziando ad ascoltare.

    Bruno Fasani