Parole antiche sempre nuove

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    «Qui, noi facciamo così.

    Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi e per questo viene chiamato democrazia.

    Qui, noi facciamo così.

    Le leggi qui assicurano una giustizia uguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell’eccellenza. Quando un cittadino si distingue, allora esso sarà, a preferenza di altri, chiamato a servire lo Stato. Ma non come atto di privilegio, bensì come una ricompensa al merito. La povertà non costituisce in questo un impedimento.

    Qui, noi facciamo così.

    La libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana. Noi non siamo sospettosi uno dell’altro e non infastidiamo mai il nostro prossimo. Se al nostro prossimo piace vivere a modo suo, noi siamo liberi. Liberi di vivere come ci piace e tuttavia sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino, qui da noi, non trascura il bene pubblico quando attende alle proprie faccende private, ma in nessun caso si occupa delle faccende pubbliche per risolvere le proprie questioni private.

    Qui, noi facciamo così.

    Ci è stato insegnato di rispettare i magistrati e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi e di non dimenticarci mai di coloro che hanno subito un’offesa. Ma ci è stato insegnato anche a rispettare quelle leggi non scritte, che risiedono nell’universale sentimento di ciò che è giusto e di ciò che è di buon senso.

    Qui, noi facciamo così.

    Un uomo che non si interessa dello Stato noi non lo consideriamo innocuo. Semplicemente inutile. Benché in pochi siano in grado di dar vita ad una vera politica, beh, tutti, qui da noi, siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione un ostacolo alla democrazia. Noi crediamo che la felicità sia frutto della libertà, ma la libertà sia solo frutto dei valori. Insomma, io proclamo Atene scuola dell’Ellade e proclamo che ogni ateniese deve far prosperare in sé una felice versatilità, fiducia in se stesso e prontezza nell’affrontare qualsiasi situazione. Ed è per questo che la nostra città è aperta ed è per questo che noi non cacciamo mai uno straniero.

    Qui, ad Atene, noi facciamo così».

    Queste parole che ho voluto spartire con i lettori de L’Alpino sono parole che Pericle pronunciò 2465 anni fa, esattamente nel 451 prima di Cristo. Tempi che, inconsciamente, siamo portati a confinare negli spazi bui dell’arretratezza, nella mancanza di sviluppo, ma che, in realtà, contengono bagliori straordinari di luce e di modernità. La scienza e la tecnica ci hanno consegnato mezzi straordinari, ma abbiamo finito per consegnarci ad esse, rinunciando spesso alla forza trascinante del pensiero e della cultura. Soprattutto lasciandoci rubare la libertà più profonda, continuando ingenuamente a proclamarci senza padroni.

    Queste parole me le ha consegnate una signora greca che, come molti altri suoi concittadini, vive le difficoltà che sta attraversando il suo Paese, alle prese con molte contraddizioni di vario genere. Mi ha fatto impressione ascoltarle, sia perché sono facilmente applicabili anche all’Italia, ma soprattutto perché sono parole capaci di insinuarsi nella coscienza contemporanea, come un tarlo che pone interrogativi profondi.

    A chi ha compiti di responsabilità sociale, ma anche al cittadino comune, spesso combattuto tra una crescente indignazione per il modo in cui è mal governato e la tentazione di rifugiarsi nel privato, come se la sua esistenza non appartenesse ad un corpo sociale. Trovo queste parole particolarmente significative anche per gli alpini, chiamati a servire lo Stato non per privilegio, ma per spirito di servizio. Un servizio che non ha bisogno di far ricorso a titoli accademici o di altro genere per rendersi utile agli altri. Le mani e il cuore non attingono la loro aristocrazia alle grandezze convenzionali, ma esclusivamente all’ampiezza della generosità. Sapendo che è solo dal bene comune che può crescere anche il proprio.

    Bruno Fasani