La responsabilità ci ha reso uomini

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    Era sera e si percepiva una certa agitazione nella palazzina Comando. Da tempo ci stavamo preparando per l’operazione “Vespri Siciliani”. Già erano pronti i piani di caricamento e, nelle nostre teste e nei nostri automatismi, i dettagli dell’addestramento: posti di blocco, perquisizioni, pattugliamenti, metodi di irruzione in un caseggiato…

     

    Cosa, dunque, di nuovo? Qualche giorno prima, il 16 dicembre 1992, il Parlamento aveva deliberato l’invio di truppe in Mozambico e aveva scelto proprio il “Gruppo Tattico Susa” della Taurinense. Ne fummo informati in adunata la mattina successiva. “Chi non se la sente, si tiri indietro”: pochissimi. Febbrili preparativi e addestramento con i nuovi materiali, mentre il “via” non si decideva ad arrivare.

    Atterrai con la prima aliquota della mia compagnia – la 34ª “lupi” – il 23 marzo, con quel sottile nervosismo che ci avrebbe accompagnato nei pattugliamenti delle prime settimane: cosa ci avrebbe aspettato in un Paese dove le armi automatiche non avevano smesso di sparare per 27 anni? Nel giro di pochi giorni gli accampamenti si organizzarono con insospettata efficienza e cominciammo a prendere possesso dei nostri compiti: pattugliamento e smilitarizzazione di tutto il “corridoio di Beira” (strada, ferrovia, oleodotto e linee dell’alta tensione che dall’Oceano Indiano portano al vicino Zimbabwe), scorte a convogli sia gommati che ferroviari, servizi per garantire la sicurezza… Ancora oggi mi rallegro che mi sia toccato in sorte l’incarico di pilota di un blindato, in uno dei plotoni più operativi.

    Significava essere sempre in movimento e quindi, anche, vedere le condizioni della gente, i segni della guerra e qualche scorcio di Africa. Oggi è ricordata come una delle missioni militari dell’Onu di maggior successo. Allora lo svolgimento ordinato e tranquillo indusse qualche giornalista a definire la missione ‘inutile’ e a parlare di ‘inattività’ degli alpini. Non ho ricordi di giornate vuote: dei 110 giorni di permanenza, ne conto più di 80 di pattuglia, spesso dormendo fuori, e almeno 10 di servizio di vigilanza. Libere uscite: 5, di un paio d’ore, sotto gli occhi vigili delle ronde. Quanto alla pretesa ‘inutilità’ dell’operazione, per noi erano invece evidenti alcuni ‘fatti’: abbiamo visto ritirarsi le truppe dello Zimbabwe, che erano entrate a forza nel Paese a difendere il loro ‘sbocco al mare’; ci siamo accorti che l’esercito governativo, rassicurato dalla nostra presenza, iniziava a congedare parte del suo numerosissimo organico restituendo forze vive al Paese; sono diminuiti fino ad annullarsi gli atti di brigantaggio (sempre cruenti), prima all’ordine del giorno; e, in seguito a ciò, abbiamo visto sfilare i convogli umanitari che da anni non osavano mettersi in moto, perché sicuri di venir saccheggiati prima di raggiungere la meta.

    Quando poi, già in Italia, abbiamo saputo del felice compimento delle prime libere elezioni multipartitiche della storia del Mozambico (ottobre 1994) e dell’insediamento del nuovo Governo, ognuno di noi ha provato la gioia di aver dato il suo piccolo contributo. Il primo vero snodo della missione, almeno nella mia percezione, si ebbe una decina di giorni dopo il nostro arrivo. Era la vigilia della domenica delle Palme, in cui quell’anno si celebrava la Giornata Mondiale della Gioventù. Il vescovo di Chimoio l’avrebbe festeggiata con i giovani del luogo, non lontano dal nostro accampamento. In adunata ci dissero: «Se qualcuno volesse andare…». Partecipammo in 300, in mimetica ma senza armi. Ad accoglierci quasi mille giovani mozambicani, composti e a loro modo eleganti. Una Messa lunga, dai ritmi africani, al tempo stesso raccolta e gioiosa. Un unico striscione: «4 aprile 1993, Giornata mondiale della gioventù, primo anno della gioventù mozambicana in pace». In un Paese dall’attesa di vita non superiore ai 47 anni, l’enorme maggioranza della popolazione aveva fino ad allora vissuto unicamente in condizioni di guerra…

    Questa gente, abituata al passaggio di non benevoli eserciti (da quello portoghese ai governativi ‘rossi’, dai ‘khmer neri’ della RENAMO, all’esercito dello Zimbabwe) si rese conto che – sotto giubbotti antiframmentazione, elmetti e mitra – eravamo ragazzi normali, venuti con l’intento di aiutare un fragile processo di pace. La chiamano ‘strategia italiana di approccio alle operazioni militari di pace’. Sarà anche codificata, ma a noi venne spontanea. Fu questo rapporto disteso con la popolazione che ci permise di capire qualcosa in più, di intravedere la loro reale situazione sotto il velo del pudore e della dignità. Come quando, in una sosta durante una pattuglia, una donna ci chiese aiuto per il suo bambino. Eravamo nei pressi del monte Xiluvo per individuare eventuali collegamenti tra la statale e la ferrovia. Il nostro aiutante di sanità si rese presto conto della gravità della situazione.

    Venimmo a sapere che era una famiglia numerosa, scappata dall’interno e rifugiatasi sulla lunga strada; “per qualche mese” pensavano; ed erano passati gli anni. Nemi era il più piccolo. Mangiavano poco, quasi mai carne. Tutto qui. Che fare? Il Comando decise di mandare un elicottero. Di per sé, almeno in questa prima fase della missione, il Reparto di sanità era destinato solo ai militari ONU dei contingenti dislocati nella Regione centrale. Ma, fin da subito e senza tanta pubblicità, quanti interventi hanno fatto i nostri medici per la gente del luogo… Riprendemmo il nostro pattugliamento fino al pomeriggio seguente. Appena rientrati in tenda, fu chiamata l’adunata di plotone. “I medici hanno lottato per un giorno e una notte… ma invano: Nemi è morto questa mattina, all’alba. Malnutrizione, mancanza di proteine…”.

    Non ci guardammo neppure in faccia e ritornammo lentamente alle nostre tende, ognuno seguendo le orme dei propri pensieri. Non lo sapevamo, forse, che attorno a noi la gente moriva di fame? Ma ‘gente’ è un concetto generico; questa era una persona. Non lo conoscevamo, non avevamo legami d’affetto, ma ci eravamo illusi di poter ridare forza a quel corpo inerte e gioia allo sguardo di dolore di una madre. Toccare con mano la povertà ha aiutato a farci diventare uomini, come anche il senso di responsabilità e la riflessione: degli avvenimenti, dei comportamenti nostri o altrui, degli errori anche, si discuteva a lungo in tenda.

    Uno di noi, ad esempio, aveva adottato la maschera del cinismo – un bravissimo ragazzo, in realtà – e ora era costretto a indossarla: “Sono qui solo per i soldi, per potermi comprare una macchina”. Venni poi a sapere dal cappellano militare che dava a lui metà dello stipendio, perché lo devolvesse a qualche missione dei dintorni… Quei mesi in terra d’Africa resero compatto quel gruppo di uomini, esaltando il già forte spirito di corpo del “Susa”: quattro mesi senza licenze, lontano da casa e per questo più stretti tra di noi. Mesi dopo mi scriveva un amico: “Forse sarà perché dopo un po’ di tempo si ricordano solo le cose piacevoli, ma se mi dicessero “Domani torni giù con tutta la 34ª cp”, io ci tornerei al volo».

    Marco Della Torre