L'intellettuale sotto il cappello

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    Ho sotto gli occhi le parole del filosofo contemporaneo, Pierre Levy: Gli intellettuali collettivi sono spazi umani che incoraggiano a singolarizzarsi in modo continuo. Cantieri per la costruzione di macchine celibi. Schiere di nomadi in marcia sui viali della città . Sono parole pensose. Tento di tradurle per noi alpini, noi che sentiamo il fascino delle cose semplici e l’irresistibile richiamo di dire pane al pane e vino al vino.

    Levy parla di intellettuali collettivi . Ma non si tratta di persone. Sono piuttosto i codici della cultura moderna, la bibbia dei luoghi comuni, quella dei condizionamenti sociali, dei modelli mediatici che ci vengono proposti come nuovo modo di vivere e di coniugare le relazioni umane. Ed è su queste premesse che la riflessione si fa amara, quasi fossimo diventati tutti dei nomadi, creature senza radici, spinti a vivere da singoli, sazi della nostra autonomia, come dei randagi che non hanno bisogno degli altri e del loro aiuto.

    Gente di fretta, che attraversa sbadigliando i percorsi della vita, come se nessuno scenario meritasse attenzione. Uomini sempre pronti a trasmigrare come si fa con lo zapping televisivo perché nessun programma è più capace di catturare la nostra attenzione. Cantieri per la costruzione di macchine celibi . Sono parole spietate. Macchine. Così sarebbero diventate le creature del 21º secolo. Ingranaggi senza anima, per destini da celibe, inteso qui nel senso peggiore, cioè di gente negata alla comunione. Da celibe, non condivido questa definizione, perché il celibe, quando realizza il senso del suo essere senza una famiglia propria è solo perché sente la vocazione ad essere per tutti.

    Tanto più che si può essere solitari e incapaci di comunicare anche con tanti matrimoni alle spalle. Leggo queste parole e ho nel cuore il profumo di Bergamo. Inutile fare retorica, ma proibito trascurare i sentimenti. Mi tornano alla mente le battute del popolo: Ci vorrebbe un’Adunata ogni domenica, in una città diversa, per imparare a stare insieme , abbiamo sperimentato cosa vuol dire una città sottratta alla logica del commercio e delle passeggiate snob e restituita al calore del popolo , guardarsi e sorridersi è ancora possibile .

    Rivedo le suore Orsoline con in testa il cappello alpino e vedo nei loro visi le origini popolari di donne radicate nelle migliori tradizioni della gente. Donne delle nostre case, che un velo ha portato ad essere donne di tutti senza appartenere ad alcuno. Vedo i bambini, agghindati da alpini, come la cifra di un orgoglio popolare, che ha le uniche stellette dell’onorabilità e della stima della gente. In tempi in cui tutte le istituzioni hanno indici di gradimento in picchiata, la cosa non è di poco conto.

    Vedo tutto questo e penso alle parole di Levy. E mi chiedo se davvero andiamo verso un destino di solitudine o se gli alpini non siano, in qualche maniera, un potente intellettuale collettivo capace di dire parole in controtendenza. Perché noi alpini non siamo degli eroi, gente fuori dalla norma, santificetur dalle tante anime. La nostra forza, prima ancora che organizzativa o virtuosa, è la nostra capacità di evocare il bisogno di relazione che la creatura si porta dentro, cioè la vera ricchezza antropologica che la natura ci ha dato in dotazione.

    Stando insieme risvegliamo e raccontiamo l’identità profonda dell’uomo, che va oltre le fragili identità parziali o fittizie che si mettono insieme, navigando su facebook piuttosto che su qualche chat improvvisata. In questo senso noi alpini diamo voce al Dna umano, che certa cultura vorrebbe coprire con lo strepito di promesse alternative. A Bergamo, come ovunque, abbiamo visto tanta allegria. Si sono visti anche tanti giovani. Molti di loro avevano alzato il gomito con palese evidenza. Ma ho avuto l’impressione che parecchi non fossero alpini.

    Molti erano giovanissimi, rappresentanti del popolo della notte, figli dello sballo, quelli che al fine settimana consumano i riti in discoteche dove si va insieme per restare da soli e dove il rumore spegne le voci del dialogo e della confidenza, pur dando l’impressione di stare insieme. Sono venuti anche loro, sottraendosi per una notte agli intellettuali collettivi che li blandiscono non per il bello della loro giovinezza, ma per i soldi che hanno in tasca. Si sono calati nella vivacità brulicante dei nostri riti, sia pure portando qualche abitudine delle loro notti brave, per confermare il bello dello stare insieme.

    Penso alle macchine celibi. E penso agli alpini come l’icona dei celibi per amore. Non quelli frustrati da vuoti di umanità o da affetti mancanti. Ma ai celibi intesi come uomini per tutti, senza condizioni e senza esclusioni, gioiosamente orgogliosi di stare insieme. E soprattutto a tempo indeterminato, come una vocazione che non attende il congedo.

    Bruno Fasani