L’esercito dei dispersi

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    Il tragico epilogo dei soldati dell’Armir riaffiora in Russia grazie ai ricercatori Alexey Ivakin e Andrey Ogoljuk dell’Associazione Pubblica Regionale Giovanile Ricognitori di Kirov “Dolg” che nel giugno scorso, in un campo nei pressi di Shikhovo (cittadina che sorge a pochi chilometri dal capoluogo Kirov), hanno rinvenuto una enorme fossa comune con i resti di soldati italiani, tedeschi, ungheresi e rumeni, combattenti sul fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale. 

     

    Migliaia di loro vennero catturati in seguito agli aspri combattimenti dei primi mesi del 1943 a Voronež e Stalingrado e condotti nei campi di prigionia in vagoni stracolmi o dopo lunghe, sfiancanti marce. La loro destinazione aveva un nome complicato e un numero: campo 1.773 di Bystryagi, 1.149 di Belaja Kholuniza, 1.952 a Golizin, poi Slobodskoy, Pinjug, Lojno, Rudnicnyj. Solo nel comprensorio di Kirov ce n’erano almeno sette.

    Spesso feriti, stremati dal gelo e dalla fame, oppressi dalle condizioni di detenzione, in molti non ce la facevano. Si stima che nei primi sei mesi del 1943 morirono nei campi russi l’85% dei prigionieri italiani, più di 31mila nostri connazionali. Furono sepolti in fosse come quella ritrovata a Shikhovo. Ivakin racconta che già negli anni Sessanta, coltivando i campi in quella zona, affiorarono dei resti umani. Ma la glasnost non c’era ancora e tutto fu dimenticato. I terreni, divenuti nel frattempo edificabili, avrebbero dovuto essere venduti per costruire delle villette.

    I primi sondaggi nel suolo alla profondità di un metro hanno restituito delle ossa e qualche suppellettile che non lascia dubbi sulla nazionalità dei Caduti. Alcuni bottoni delle divise italiane, una moneta, una medaglietta con l’effige della Madonna, una piastrina ungherese e la parte inferiore di una piastrina italiana su cui si leggono la classe 1922, il luogo di nascita “Monchio Parma”, il nome della madre del soldato, “Palmina”, e il cognome da nubile che potrebbe essere “Zammarchi” (qui il condizionale è d’obbligo, dato che l’incisione è in una parte assai deteriorata della piastrina).

    Come ha riportato Il Giornale si dovrebbe trattare dell’alpino dell’8º Giulio Lazzarotti, nato il 25 giugno 1922. Il suo reggimento fu annientato il 20 gennaio 1943 a Nowo Postojalowka, la più cruenta battaglia che il Corpo d’Armata Alpino combatté in Russia. Per i prigionieri iniziarono le marce del davai (“avanti, cammina!”, parola con la quale i soldati russi intimavano i prigionieri) e la triste destinazione. Se pensiamo che la fossa rinvenuta dai ricercatori dista oltre 1.500 km dalla zona di combattimento del suo reparto, abbiamo solo una vaga idea di quello che patirono i soldati.

    Avuta la notizia del rinvenimento della fossa comune l’Associazione Nazionale Alpini ha contattato il Ministero della Difesa e in particolare il Commissariato generale per le onoranze ai Caduti, con il quale in passato ha collaborato per individuare delle sepolture lungo il tragitto della ritirata e identificare alcune salme. A fine settembre Onor Caduti ha richiesto all’associazione “Memoriali militari”, ente di riferimento in Russia per le sepolture di guerra, di poter effettuare una ricognizione congiunta del sito con l’invio del proprio personale.

    I canali ufficiali sono stati attivati e si pensa di poter iniziare la riesumazione delle salme nella primavera del prossimo anno, quando le temperature saranno meno rigide. Sperando, nel frattempo, che il gelo diplomatico tra i Paesi europei della Nato e la Federazione Russa non aumenti, rendendo tutto più difficile. Riportare a casa e dare degna sepoltura ai nostri Caduti non è solo un gesto di umana compassione, è un atto di giustizia per onorare i tanti giovani alpini dispersi nella steppa russa.

    Matteo Martin


    Testimonianze

    «All’aperto, al centro di un villaggio russo, centinaia di prigionieri italiani, tedeschi, ungheresi, romeni e altri, già si trovavano raccolti. A ognuno veniva tolta ogni cosa: zaino, coperte, pastrani con pelo, orologi, catenine, portafogli ecc., e persino strappate sotto ai propri occhi le fotografie. Tutti coloro che non si reggevano più per le ferite o i congelamenti e rimanevano indietro, venivano uccisi e lasciati sul posto in pasto ai corvi. Chi stramazzava esausto riceveva una pallottola nella testa. Quasi subito scorgevamo borghesi russi che si precipitavano sopra i cadaveri, spogliandoli dei loro vestiti, lasciandoli completamente nudi. Però in mezzo a tanta cattiveria e tanta ferocia qualcuno poté ancora mendicare un pezzo di pane e un poco d’acqua da mani generose di anziane donne russe. Alle prime luci del mattino c’imbattemmo in una lunga colonna di mezzi pesanti russi. Al grido ‘Kaput Hitler’ e ‘Kaput Mussolini’ si dilettavano al tiro al bersaglio. Le fucilate, frammiste a sataniche risate, aumentavano il tragico numero di coloro che lasciammo là per sempre. Quando gli ultimi mezzi stavano per passare e il pericolo sembrava scongiurato, un gigantesco carro armato improvvisamente s’impenno, sterzò di colpo e a tutta forza irruppe nella compatta colonna dei prigionieri, attraversandola completamente… in pochi secondi una decina, e forse anche più, di prigionieri finirono per sempre la loro giovane esistenza, orribilmente schiacciati, maciullati e stritolati tra i possenti cingoli d’acciaio».

    Michele Bosis, cl. 1918, infermiere del 620º ospedale da campo della Tridentina

    «Prima di portarci via da quel posto, ci hanno ordinato di andare a raccogliere tutti i morti sparsi qua e là sul terreno. Non avevamo nemmeno una slitta: io e un altro prigioniero usavamo una sbarra di ferro, la facevamo passare sotto le braccia del cadavere e così lo trascinavamo nella fossa. Ho fatto quel lavoro almeno per una settimana, buttando i cadaveri nelle fosse comuni. Seppellivamo, italiani, tedeschi e russi insieme, perché non era sempre facile distinguerli: quanti mucchi di cadaveri, soprattutto soldati italiani… Dopo averne trascinati alcuni, uno di noi scendeva sempre nella fossa, ponendo i piedi sopra il mucchio di cadaveri, per sistemarli un po’. Non mi ricordo come si chiamava il luogo di prigionia in Siberia, anzi non ce l’hanno mai rivelato. Vi dico però che il viaggio in treno è durato ben trentadue giorni. Non si viaggiava dentro semplici vagoni, ma rinchiusi addirittura in gabbie di ferro. Nella mia gabbia un prigioniero mi è morto accanto. Il cadavere di quel povero soldato italiano è rimasto lì più di tre giorni, immobile, al mio fianco, prima che lo portassero via… Siamo stati trentadue giorni ingabbiati e quasi sempre al buio. Vedevamo un po’ di luce quando aprivano lo sportellino del vagone, per darci quelle poche scatolette di cibo o per i controlli».

    Placido Perucchini, cl. 1918, 49ª compagnia del 5º Alpini

    Tratte dal libro “I reduci raccontano”, a cura di Luigi Furia