L’assedio più lungo della storia

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    Nell’autunno di settant’anni fa Leningrado era circondata da Sud e da Nord da 31 Divisioni tedesche e dai loro alleati finlandesi. Quella morsa mortale durò 900 giorni, dall’8 settembre 1941 al 27 gennaio del ’44 e costò alla città – la seconda dell’Unione Sovietica – atroci sofferenze e un milione e mezzo di morti. Fu il più lungo assedio della storia. Quando venne liberata dall’Armata Rossa, l’astro di Hitler era ormai in declino e le sorti della Germania erano segnate: l’esercito tedesco aveva mancato la conquista di Mosca, aveva subito l’onta della sconfitta a Stalingrado e le battaglie ad El Alamein avevano portato alla cacciata di Rommel dal teatro nord-africano.

     

    Il conflitto, purtroppo, si sarebbe prolungato ancora per più d’un anno: la macchina da guerra nazista avrebbe continuato a funzionare, in Germania così come nei Paesi occupati, con repressioni e deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio, avrebbe conteso agli alleati città e paesi. L’idea aberrante di Hitler era quella di creare in Europa un unico stato tedesco formato da Obermenschen, superuomini, riducendo le popolazioni a, ovviamente, Untermenschen, uomini di seconda categoria eliminando chiunque non lo assecondasse, a cominciare dai generali. Ma soprattutto, voleva distruggere Leningrado: ne era sicuro quando ad appena poco più di due mesi dall’inizio dell’Operazione Barbarossa, tre gruppi di armate tedesche giunsero a un centinaio di chilometri da Leningrado.

    Perché questo accanimento sulla città costruita dallo zar Pietro il Grande sul delta della Neva, sul golfo di Finlandia, a lungo capitale dell’impero con i suoi magnifici palazzi, culla di cultura? Perché era la città nella quale era iniziata la rivoluzione sovietica, dall’alto valore simbolico e ideologico per i russi che la consideravano sacra: l’avrebbero difesa fino all’ultimo uomo. Hitler voleva dunque colpire il comunismo là dov’era nato, convinto che la capitolazione della città sarebbe stata un duro colpo per i combattenti sovietici su tutto il resto del fronte. Odiava Leningrado e tutto ciò che rappresentava, voleva raderla al suolo, eliminare tutti i suoi abitanti, sostituirli con duecentomila tedeschi e occupare il territorio per farlo entrare nello “spazio vitale” di una Germania sempre più grande.

    Questi erano gli ordini ricevuti dal feldmaresciallo Wilhelm Ritter von Leeb, uno stratega della Campagna di Francia. Perchè mai, dunque, le Divisioni tedesche si fermarono a un centinaio di chilometri dalla città, e i finnici erano ormai soltanto a 25 chilometri? “Wir wollen weiter vor” (vogliamo andare avanti), era il pensiero dominante dei soldati, impreparati alla guerra di posizione. Ma Hitler tentennava: più volte aveva ribadito ai suoi generali che intendeva non sacrificare la truppa in un attacco che si era dimostrato sin dall’inizio insidioso, su un terreno che sulla carta era pianeggiante ma in realtà era formato da acquitrini, laghetti e corsi d’acqua, un territorio sul quale i reparti corazzati non avrebbero potuto sviluppare le tecniche della guerra lampo.

    Non sopportava l’idea di combattere metro per metro, strada per strada, casa per casa. Era convinto che Leningrado assediata, affamata e senza rifornimenti sarebbe capitolata da sola. L’ordine era comunque di rifiutarne la resa, non aveva affatto intenzione di provvedere alla popolazione: “Nessun soldato tedesco metterà piede né a Leningrado né a Mosca”, aveva ammonito. Il feldmaresciallo von Leeb, tuttavia, non era certo un prussiano educato all’inedia. Ben presto entrò in rotta di collisione con il Führer e venne esonerato, così come il feldmaresciallo Karl Rudolf Gerd von Rundstedt e una trentina di generali. Da allora, pretese di dare lui stesso gli ordini alle Divisioni sul fronte orientale, impedendo qualsiasi iniziativa dei comandanti che non fosse in linea con il suo piano strategico (Stalingrado e il sacrificio dell’armata di von Paulus ne saranno gli esempi più clamorosi).

    Del resto, il maresciallo Kliment Voroscilov, comandante della guarnigione di Leningrado (mezzo milione di soldati) e il commissario politico Andrei Zhdanov che lo affiancava non avevano alcuna intenzione di arrendersi. All’approssimarsi dei tedeschi avevano fatto spostare i macchinari delle grandi industrie, trasferendoli con gli stessi operai al sicuro oltre gli Urali. In città rimasero solo le fabbriche di armi e munizioni. Fecero costruire trincee e sbarramenti, organizzarono una difesa che prevedeva tempi lunghi in attesa dell’arrivo delle armate sovietiche di soccorso. Dopo che i grandi depositi alimentari furono distrutti nei bombardamenti, vennero razionati i viveri. La gente coltivava qualsiasi pezzetto di terra, giardini e aiuole, e finì per nutrirsi di carogne di animali, topi, colla, scarpe. Mancava l’elettricità e la benzina: chi poteva, si riscaldava bruciando le travi e il legname degli edifici che via via venivano distrutti. Benché il regime non lo abbia mai ammesso, ci furono non meno di 1.500 casi di cannibalismo. Stremati, ma gli abitanti della città resistevano.

    Il 1942 fu particolarmente duro: ci furono ben 254 giorni di bombardamenti e nell’inverno ’42-43 non meno di diecimila morti al giorno per freddo e, soprattutto fame. Migliaia di persone si lasciarono morire, in casa, per strada, nei rifugi. Ma fu proprio il 1942 l’anno della svolta a favore degli assediati ai quali iniziarono ad arrivare i rifornimenti attraverso natanti dal lago Ladoga. Le fabbriche di armi lavorarono a pieno regime. Si susseguirono attacchi e contrattacchi. Convinto della debolezza dell’avversario, il maresciallo Erich von Manstein, un prussiano di ferro, stratega delle guerra di movimento con le truppe corazzate che aveva sostituito il dimissionato maresciallo von Leeb (sarà poi lui stesso esonerato da Hitler, nel 1944, per contrasti sulla strategia di sganciamento dal fronte del Don) sferrò un massiccio attacco che nelle intenzioni avrebbe dovuto essere quello finale.

    Il suo ottimismo contagiò Hitler, che fece addirittura stampare gli inviti per festeggiare la caduta di Leningrado. A sorpresa, però, i russi contrattaccarono e aprirono un varco a sud del lago Ladoga, nonostante gli attacchi dei finnici e il concorso di flottiglie dei MAS della marina italiana messe a disposizione da Mussolini. L’inverno ’42-43 segnò un altro punto a favore dei sovietici, perchè non appena il lago Ladoga fu ghiacciato, venne aperta una pista di ghiaccio – la “via della vita” – attraverso la quale passarono finalmente a sufficienza viveri e munizioni: si rafforzò il fronte, tanto da far riaprire scuole e teatri. Dmitrij Shostakovich compose i primi tre movimenti della Settima Sinfonia “Leningrado”, il cui quarto movimento venne poi composto nella residenza sugli Urali, dove Stalin aveva fatto trasferire gli artisti della città. Tutto questo non pose fine ai bombardamenti aerei e da terra delle artiglierie tedesche a lunga gittata, sempre più devastanti.

    In uno di questi venne distrutta la celebre “Peterhof”, la residenza estiva di Pietro il Grande. Ma le armate tedesche, intanto – secondo la strategia di Stalin – si andavano logorando, quelle sugli altri fronti risentivano delle forze avversarie. Il mito dell’invincibilità dell’esercito tedesco stava svanendo. Nel dicembre ’43 si svolge la battaglia decisiva, con i russi all’iniziativa: l’armata rossa attaccò con 375mila uomini, 15mila cannoni e 1.200 carri armati. Di fronte c’erano 170mila tedeschi al comando del maresciallo von Kuchler, ormai stremati dal lungo conflitto, con 4.500 cannoni e appena 200 carri. Una lotta impari, che dimostrò tutta la forza messa in campo da Stalin che impiegò nei giorni seguenti anche la 42ª armata sovietica e unità d’assalto. Nella manovra a tenaglia vennero catturate sette Divisioni tedesche. Leningrado era liberata, dopo un’eroica resistenza. Era il 27 gennaio 1944.

    Giangaspare Basile