K2, da cinquant’anni montagna degli italiani

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    Cinquant’anni fa Lino Lacedelli e Achille Compagnoni conquistarono il K2, la seconda vetta
    del mondo. Oggi, sul Karakorum c’è una spedizione italiana, quella del Progetto K2 2004 , composta da 33 alpinisti e una cinquantina di tecnici e scienziati coordinati
    dall’Istituto nazionale di ricerca scientifica e tecnologica sulla montagna presieduto da Giancarlo Morandi. La spedizione è guidata dal bergamasco nonché veterano del Karakorum Agostino Da Polenza e si propone di ripercorrere tre vie: lo Sperone Abruzzi
    e lo spigolo Nord del K2 ed infine la parete dell’Everest sul versante tibetano. Ben nove i progetti sui quali gli scienziati lavoreranno. Umberto Pelazza, in questa bella ricostruzione,
    ci riporta alla storica ascensione che meravigliò e appassionò il mondo intero.

    DI UMBERTO PELAZZA
     
    Dal 31 luglio 1954 il K2 (Karakorum 2), per i pakistani Chogorì (grande monte), seconda vetta della terra dopo l’Everest con i suoi 8.611 metri, è la montagna degli italiani. Quel giorno fu come se nel nostro paese tutti si fossero messi un fiore all’occhiello, scrisse Paolo Monelli: l’immagine piacque a Luigi Einaudi, presidente della Repubblica e rimbalzò nell’aula di Montecitorio, dove un Parlamento, unanime come non mai, proruppe in uno scrosciante
    applauso.
    Ma è anche la montagna degli alpini. Del friulano Ardito Desio, capo spedizione, ‘vecio’ se ce n’è stato uno, tenente dell’8º nel 15 18, del sergente della Valfurva Achille Compagnoni,
    btg. Tirano e Scuola Alpina, del caporale del 5º Walter Bonatti, bergamasco, del tenente milanese Pino Gallotti, di Gino Soldà del 9º, dell’udinese Cirillo Floreanini, dei tre valdostani
    Ubaldo Rey, Sergio Viotto e Mario Puchoz il cervinotto, sopravvissuto al gelo della steppa russa e ora sepolto ai piedi del K2, del cineasta Mario Fantin di Bologna. A completare il cast alpinistico, il cortinese Lino Lacedelli, Erich Abram di Vipiteno, il biellese Ugo Angelino e il medico alpinista Guido Pagani.
    Il primo incontro di allenamento e affiatamento si era svolto nel gennaio 1954 alle alte quote e basse temperature del Piccolo Cervino e del Monte Rosa, presente in incognito un ufficiale
    della Scuola Alpina, il capitano Enrico Peyronel, armato di pagella scolastica e matita rossoblu. Sul gruppo aleggiava il ricordo di Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi, che quasi mezzo secolo prima aveva tracciato la strada della vetta lungo la cresta sud est, detta poi ‘Sperone degli Abruzzi’. La sua spedizione era rientrata con le stupende fotografie di Vittorio Sella, che avrebbero fatto il giro del mondo.

    Desio e i suoi uomini lasciano l’Italia il 27 aprile e atterrano a Skardu, sulla riva sinistra dell’Indo: partite da Genova un mese prima, arrivano in 400 casse tredici tonnellate di materiali: viveri, vestiario, corde, tende, bombole di ossigeno, che passano sulle spalle di 700 portatori per il trasferimento al campo base. In prossimità del ghiacciaio Godwin Austen,
    appare sullo sfondo la linea superba dell’ancora inviolato K2. ‘A quella vista’ ricorda Compagnoni il sangue mi affluì al viso per l’emozione: di primo acchito mi parve di vedere il Cervino .
    La lunga carovana si ricompatta il 31 maggio ai 4.600 metri del campo base e subito vengono avviate le ricognizioni per individuare e allestire i vari campi. Ma dopo pochi giorni giunge dal campo II una notizia preoccupante: Mario Puchoz è colpito da un violento mal di gola. Il giorno dopo si aggrava e viene trasportato al campo I, dov’è visitato dal dottor Pagani: broncopolmonite. Infuria la bufera e non è possibile scendere al campo base: l’alpino che aveva detto: ‘Me la son cavata nella sacca del Don e me la caverò anche stavolta’, muore la sera del 21 giugno. Soltanto il 27 i compagni costernati riescono a ricuperare la salma. Viene sepolto su un terrazzino proteso sul ghiacciaio: una croce di legno, una piccola lapide ricavata da una scatola di alluminio, un mazzetto di fiori raccolti a cinquemila metri, 13 candeline, quanti i componenti della spedizione. E il canto sommesso di ‘Montagnes Valdotaines’. Ma il tempo incalza e si cerca di reagire profondendo ogni energia nella difficile sistemazione dei campi, spesso ostacolata dalla furia della tormenta, che impedisce l’ancoraggio delle tende. Il Camino Bill, passaggio chiave, già superato da una spedizione americana, viene attrezzato con teleferica per trasporto materiali. Tutto l’itinerario è percorso
    da un’ininterrotta sequenza di corde fisse, indispensabili specialmente con tempo avverso. Ai 7.500 metri del campo VII ecco apparire, tra una nuvola e l’altra, le vette del Broad Peak e del Gasherbrum. I trasporti proseguono verso il penultimo campo, l’8º, sotto un alto muro di ghiaccio, dove fan zaino a terra i due candidati alla vetta: Achille Compagnoni, incaricato da Desio di guidare l’attacco finale, e Lino Lacedelli. Il 30 luglio i due muovono verso il campo 9º, mentre nel pomeriggio Bonatti e il pakistano Madhi stanno salendo per consegnare loro i
    respiratori: ma nell’ incombente oscurità ne sono distolti dalla voce lontana e confusa di Lacedelli, che li invita a deporre il materiale sulla neve (l’avrebbero ritirato l’indomani) e a ridiscendere. Madhi però è provatissimo e sta farneticando: Bonatti è costretto a scavare
    una nicchia nel ghiaccio, dove i due rimangono accovacciati tutta la notte a lottare contro il gelo e la tormenta, stretti l’uno contro l’altro: la temperatura sfiora i 40º.
    Il mattino successivo, 31 luglio, Compagnoni e Lacedelli scendono a ricuperare i respiratori, agevolati da una piccola slavina intelligente che li deposita nelle vicinanze.
    A ottomila metri il sovraccarico è micidiale, affondano nella neve molle, ma l’ossigeno fa il miracolo e la salita lentamente riprende. Laggiù, intanto ,una figura indistinta sta barcollando
    lungo la discesa: un mistero per loro, ignari come sono di quanto era successo durante la notte. Risalgono avvolti dalla nebbia, mantenendosi il più possibile in cresta: all’improvviso sbucano al sole, ma poco dopo provano entrambi una stretta alla gola, manca il respiro e le
    gambe si piegano: è finito l’ossigeno. Si strappano le maschere, l’andatura rallenta e cominciano le allucinazioni: intorno a loro pare aggirarsi una presenza femminile. La sensazione scompare soltanto quando, superata a stento l’ultima cresta, le loro ombre si allungano sulla neve della vetta.

    Sono le 18.
    Depongono i respiratori e si abbracciano. Piantano le piccozze con le bandierine italiana e pakistana, si tolgono i guanti con difficoltà e armeggiano con le macchine da presa. Un colpo di vento porta via un guanto di Compagnoni: avvertono i primi sintomi di congelamento alle dita che, battute contro le piccozze, risuonano come rami secchi. Piangono, ridono e si lasciano invadere da un senso di rassegnata indolenza. È Lacedelli che si scuote: bisogna ridiscendere al più presto. Fanno pochi passi e scivolano, arrestandosi contro un banco di neve ventata: quando s’imbattono nei loro sacchi, Compagnoni estrae dal suo una boccetta
    con etichetta a teschio e tibie incrociate: era cognac, severamente bandito nella spedizione. Poche gocce vanno giù come una colata di ghisa: al brindisi della vittoria fa seguito un ruzzolone gigante, con salto di crepaccio, ammaccature varie e perdita di piccozza.
    E finalmente ecco una tenda che si illumina: gli amici che vegliavano nell’attesa escono e li abbracciano. Confusione e commozione: si ripensa a Mario Puchoz. Massaggi per tutta la
    notte, dolori atroci alle mani che riacquistano sensibilità.

    Partenza per il campo base: ancora tomboloni, ma pare che la montagna, passata la stizza della quiete millenaria violata, non voglia infierire. Il più anziano dei pakistani solleva le mani di Compagnoni e mormora una preghiera: ‘Tu guarire, sahib, io pregato Allah per te’. Il vincitore ringrazia, ma non eviterà l’intervento chirurgico. L’11 agosto, dopo l’ultimo,
    silenzioso raccoglimento presso la tomba di Mario Puchoz, si riprende la via del ritorno.
    31 luglio 1983, ore 18. La spedizione italiana di Agostino da Polenza raggiunge la vetta del K2 per l’ancora sconosciuto versante nord: stesso giorno e stessa ora di 29 anni prima.
    Ora gli italiani ci ritornano, alla grande.