In viaggio sull’Adamello

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    In un tiepido giorno di marzo di qualche anno fa, il tenente colonnello Caruso si porta l’indice avvolto nel guanto di pelle nera alla bocca. «Ssst!» mi dice sgranando gli occhi. “Sente anche lei che stanno arrivando?”. In effetti il sibilo si fa sempre più vicino. Fin quando l’elicottero con due rotori è esattamente sopra di noi. “Sono in linea. Ecco il lancio!” urla Caruso cercando di coprire il rumore dell’elicottero, ormai diventato frastuono. E di colpo, sopra di noi, si aprono in una fila ordinata i paracadute bianchi degli alpini, che prendono a dondolare tutti insieme fino a sparire, bianco su bianco, nella vastità del ghiacciaio. In quel giorno di marzo, Caruso mi spiegò che mi aveva invitato ad assistere a un’operazione storica: “Erano 53 anni” disse, “che qui non si faceva un aviolancio.

    L’Adamello offre un terreno difficile che per noi rappresenta anche una sfida. Ma una sfida che ha il sapore della memoria. Sono cento uomini impegnati in questa operazione, e nei prossimi quattro giorni molti di loro si muoveranno in autonomia sui ghiacciai” (dove, pensai, riposano i “nonni” degli attuali soldati in mimetica bianca). In effetti, camminare da queste parti è un vero e proprio viaggio nel viaggio. Ogni angolo di montagna è una traccia di storia, un nuovo osservatorio da dove posare l’occhio su altre cime generose di ricordi. Alla vista del rifugio Garibaldi e della Nord dell’Adamello la memoria vola subito alle migliaia di uomini che quassù hanno resistito attraverso il supplizio di tre inverni. Lo sguardo si posa sui mantelli candidi del ghiacciaio, dove sfrecciavano gli alpini skiatori. E si può immaginare il brontolio lontano dei pezzi d’artiglieria che rimbalzava di montagna in montagna: ossessivo basso continuo della Guerra Bianca. Ed è un misto di interesse culturale, di curiosità morbosa, di sete di sapere e di raccapriccio quando ci si immedesima nella carneficina che si consumò su questi luoghi oggi silenziosi.

    Ci si sporge sui fili di ferro che emergono dal ghiaccio, si osservano i muri a secco dei camminamenti, si sfiora col palmo della mano la ghisa rugosa e gelida del cannone da 149 chiamato “Ippopotamo” e meccanicamente si fa un salto nel tempo. Oggi, più che nei decenni passati, grazie al progressivo ritiro dei ghiacci, il massiccio sta diventando una sorta di spazio espositivo all’aperto: ovunque si scorgono i segni di quella guerra di appostamenti e mortali attese che non aveva avuto precedenti fino ad allora. All’entrata in guerra dell’Italia, la linea di confine tra il Regno d’Italia e l’Impero austroungarico saliva dal Tonale al Passo Paradiso, percorreva il filo di cresta Punta di Lagoscuro-Cima Payer, scendeva sul Ghiacciaio del Mandrone fino al Passo della Lobbia Alta (dove si trova il rifugio Ai Caduti dell’Adamello), risaliva lo spartiacque Cresta della Croce-Monte Fumo e il displuvio tra la Val Adamè (attuale rifugio Città di Lissone) e la Val di Fumo, fino al Passo di Campo, per poi raggiungere il Re di Castello e Monte Listino.

    Già nei primissimi giorni, gli austriaci si dimostrarono estremamente rapidi: s’impadronirono subito di una postazione strategica sul Passo del Tonale, dominando così tutta la Valcamonica fino a Vezza d’Oglio. E il 9 giugno, le truppe italiane di stanza al rifugio Garibaldi tentarono una prima offensiva alla Conca Presena. Ma dal Garibaldi, si trattava di affrontare una vera e propria ascensione alpinistica e di piombare addosso al nemico. Era un’illusione? I soldati imperiali avevano osservato le operazioni degli alpini da altri punti. E quando gli italiani arrivarono fu una carneficina. Passò più di un mese e il 15, gli austriaci portarono un improvviso contrattacco verso il rifugio Garibaldi e la “Linea dei Passi”, ma gli italiani riuscirono a resistere: la prima guerra su un ghiacciaio d’alta quota, il Ghiacciaio del Mandrone, era così iniziata.

    Da quel momento il rifugio Garibaldi divenne un punto di estrema importanza strategica per gli italiani. Il comando predispose un cospicuo rafforzamento del presidio e costituì un intero battaglione autonomo. Il battaglione utilizzava un mezzo nuovissimo all’epoca per attraversare il ghiacciaio con la neve alta: gli ski. Gli alpini skiatori (si arrivò a costituire tre compagnie per un totale di 750 uomini) erano in grado di compiere veloci incursioni sugli ampi pianori glaciali dell’Adamello, e di uscita in uscita affinarono le tecniche sciistiche allora quasi del tutto sconosciute (in Italia lo sci è nato a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento grazie ai primi tentativi di Adolfo Kind e dei suoi figli sulle montagne sopra Torino). Superata l’estate, entrambi gli schieramenti si trovarono ad affrontare il primo inverno. Poi, nell’aprile del 1916, l’attacco italiano alla linea Lobbia- Monte Fumo scattò dalle diverse direttrici: Passo della Lobbia Alta, Cresta della Croce e Dosson di Genova dove è tuttora visibile il cannone chiamato “Ippopotamo”.

    Questo vecchio obice in ghisa, reduce dalla campagna di Libia, veniva trainato da decine e decine di uomini, generalmente postaziodi notte per nasconderlo al nemico, e aveva una gittata di nove chilometri (fu il pezzo di medio calibro posizionato più in alto su tutti i fronti europei). Restaurato da volontari alpini, cimelio della Grande Guerra, venne lasciato nella sua posizione di combattimento come monumento e monito. Ma è questo, la Cresta della Croce, anche il luogo che ricalca le prime storiche tracce di escursione alpinistica con la quale nel 1864 Julius Payer iniziò l’esplorazione del Gruppo dell’Adamello e dove stando al suo racconto una piccola croce di legno a 3.330 metri già esisteva prima della sua visita, a ricordare sembra un pastore morto sulla Vedretta del Mandrone. Gli uomini, tutti gli uomini da entrambe le parti, soffrirono pene inaudite, per altri due inverni. E lassù, ai tremila metri, con otto mesi a temperature tra i –10° e i –15° C (e punte a –25°) e con neve alta fino a 12 metri di media, riuscire a non morire era già una vittoria. Il primo novembre del 1918 le truppe italiane discesero in Val Vermiglio dal Tonale, senza trovare resistenza. Era la fine del conflitto. L’Adamello dopo quattro anni, riconquistò il silenzio delle vette e dei ghiacci.

    Marco Albino Ferrari

    Sentiero dei fiori

    È una spettacolare traversata in ambiente d’alta montagna, segue il percorso della cresta che va dal Castellaccio al Corno di Lagoscuro, collegando numerosi resti della guerra. Occupata dagli austriaci allo scoppio delle ostilità fu quasi subito espugnata dagli alpini che con una scalata notturna piombarono alle spalle dei nemici costringendoli alla ritirata. La guida locale Giovanni Faustinelli con un paziente e diligente lavoro durato 12 anni (ci rimise anche una gamba per lo scoppio di una mina), risistemò quei vecchi camminamenti con l’intento di restituire memoria alla Storia e al dolore, dando vita a quello che oggi, dal 1987 è chiamato, per la magnifica flora alpina d’alta quota che si incontra, Sentiero dei fiori.

    È indispensabile portarsi l’attrezzatura da ferrata e il vestiario d’alta quota, oltre a piccozza, ramponi e torcia elettrica per le gallerie di guerra. Dalla Capanna Presena, si sale al Passo Castellaccio (2.963 m) dove si incontrano ancora rotoli di filo spinato. Qui inizia il percorso che con attrezzature, passerelle sospese, passaggi esposti, ripidi canaloni e una galleria di 67 metri scavata nel granito del Gendarme di Casamadre porta al Passo di Casamadre (2.984 m), dove si trovano i ruderi di baracche militari. Un’ultima salita su sfasciumi e si arriva sulla cima del Corno di Lagoscuro (3.166 m).

    Appena sotto la cima c’è la Capanna Faustinelli-Amici della Montagna (3.160 m) ricavata dalla ristrutturazione di una delle baracche che costituivano un vero e proprio villaggio militare d’alta quota. Il bivacco è normalmente chiuso, ma è possibile usufruire di un annesso locale d’emergenza. Dalla cima si scende in direzione del Ghiacciaio Presena (catene). Arrivati al ghiacciaio ci si dirige verso la Capanna Presena.