'In Afghanistan ci siamo sentiti utili

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    L'intervista al generale Claudio Graziano, che a Kabul, con la Taurinense, ha comandato la brigata multinazionale.

    di Adriano Rocci

    Generale, qual è stata l’immagine che i nostri media hanno fornito della vostra missione in Afghanistan nell’ambito della brigata multinazionale Kabul 8 (KMNBVIII) a comando italiano?

    La visibilità fornitaci dai media nazionali avrebbe potuto, a mio avviso, essere più ampia. È stata comunque di buona qualità; quando giornali e televisioni del nostro Paese hanno parlato di noi hanno sempre fornito un’immagine corretta, esprimendo giudizi positivi sia sulla missione sia sull’attività svolta dai militari italiani inquadrati nella brigata multinazionale VIII in Afghanistan (Kabul Multinational Brigade VIII).

    Talora, però, è stata forse eccessivamente evidenziata l’impronta umanitaria del nostro intervento: una componente che, invece, si è posta e si pone necessariamente come corollario in questo tipo di missioni di sicurezza fuori area. È vero che l’attività umanitaria svolta dalle forze di pace nell’ambito di una missione multinazionale all’estero concorre a creare consenso nella società civile, locale e nostra. Però un’informazione che l’enfatizzi eccessivamente rischia di mostrare solo una faccia dell’impegno dei militari italiani oltremare.

    Nel Diario da Kabul degli alpini della Taurinense , il blog che abbiamo attivato sul portale del quotidiano torinese La Stampa e che ci ha accompagnato durante l’intera permanenza a Kabul, abbiamo quindi cercato di dare il giusto valore alla componente umanitaria ricordando, in ogni caso, che essa era un corollario alla missione di sicurezza. La stampa dell’Associazione Nazionale Alpini, in questo senso, ci ha aiutato molto a riequilibrare il taglio informativo .

    In altri termini, i media nazionali non sono probabilmente interessati a volere mettere in luce tutti gli aspetti operativi delle missioni di imposizione della pace?

    Come lei sa, noi eravamo a Kabul anche per assicurare il libero svolgimento delle elezioni parlamentari. E proprio in tale ristretto periodo di tempo abbiamo potuto registrare la maggior presenza di inviati speciali. I quali, ultimati i loro servizi, sono rapidamente ripartiti. Se, quindi, nei sei mesi della nostra permanenza in teatro si è riusciti a fornire al Paese un’informazione completa, ciò è ascrivibile soprattutto alla collaborazione intercorsa tra le nostre strutture di pubblica informazione ed i giornalisti sul campo ed in Patria.

    Va anche sottolineato come l’attuale quadro normativo italiano non consenta di creare veri giornalisti embedded (aggregati, n.d.r.), sul tipo di quelli che hanno seguito le forze americane durante l’attacco in Iraq, che per operare proficuamente dovrebbero divenire sostanzialmente organici alle unità con le quali operano. Di fatto, comunque, i rapporti con gli operatori dei media affluiti in teatro sono stati ottimi ed improntati a stima reciproca .

    Quali sono stati i rapporti con la stampa afgana?

    Debbo prima di tutto rilevare che essa, connotata ancora da un livello di professionalità che definirei amatoriale, si è rivelata tuttavia profondamente assetata di notizie. I contatti, quindi, si sono dimostrati facili e costruttivi e l’immagine che i giornali afgani hanno proiettato di noi è stata positiva. Anche in questo caso, tuttavia, gli aspetti militari e la componente civile della missione si sono spesso confusi .

    Comando italiano, 24 nazioni rappresentate nell’ambito della grande Unità. Che percezione hanno, oggi, le forze armate straniere del soldato italiano e, più in particolare, dell’alpino?

    La Taurinense, unica componente da montagna della brigata multinazionale, è stata definita dal personale degli eserciti alleati l’esempio di come dovrebbe agire e funzionare una Brigata perfetta sul terreno di operazioni . I responsabili dei reparti stranieri partecipanti alla missione hanno rimandato di noi un’immagine di truppe molto professionali e preparate. Non solo, ma posso anzi affermare che nei confronti degli alpini ho potuto riscontrare un certo timore reverenziale sia da parte dei nostri alleati sia da parte degli afgani, congiunto ad una grande ammirazione per il livello di disciplina dei nostri soldati. Un’altra osservazione che mi è accaduto più volte di sentire nei confronti della nostra performance a Kabul da parte delle autorità afgane si può sintetizzare nell’espressione: da quando è presente la Taurinense, è cambiato in meglio il livello di sicurezza in città .

    Su questa immagine positiva ha indubbiamente influito il modo di interpretare il proprio ruolo da parte dei nostri soldati, connotato sempre da forte identità e da elevato spirito di appartenenza. In questo, intravedo una intensa continuità con il passato. In effetti, gli alpini comandati dal generale Battisti, che nel marzo settembre 2003 parteciparono ad Enduring Freedom, vennero espressamente richiesti dagli americani che guidavano l’intervento per le loro caratteristiche di preparazione tecnica e di affidabilità. Indubbiamente il profilo della Missione ISAF, ora alle dipendenze NATO, è diverso, anche se la pacificazione ancora in atto (c’è da normalizzare la situazione nel Sud e nell’Est dell’Afghanistan, aree quanto mai delicate e difficili) può comportare rischi elevati, come dimostra l’escalation di attacchi che si sono verificati nei confronti di forze appartenenti a KMNB VIII nella provincia di Kabul, lo scorso novembre .

    Quanto influisce il comando unico nella omogeneizzazione del comportamento del contingente che opera all’estero?

    Quando partii per assumere il comando di KMNB VIII ero preoccupato per dover comandare forze militari di altri Paesi, molti delle quali caratterizzate da una forte autostima sorretta da una altrettanto grande tradizione. Con il senno di poi, posso affermare che, superate le reciproche cautele iniziali, la multinazionalità ha costituito un reale moltiplicatore di potenza. È stato solo necessario, con serena fermezza, far comprendere ai nostri interlocutori chi eravamo. E capire chi erano, che psicologia avevano veramente i nostri commilitoni stranieri.

    La lezione è stata appresa in fretta e l’affiatamento reciproco si è rivelato rapido ed efficace . I media internazionali hanno dato voce, in più occasioni, a polemiche per episodi sgradevoli avvenuti sotto altre bandiere ed in altre aree del mondo. Per gli italiani in Afghanistan ci risultano solo attestazioni di stima. Avete mai riscontrato episodi di intolleranza nei vostri riguardi?

    No, assolutamente. Tredici anni fa, in Mozambico, gli alpini del Susa , che io comandavo, si comportarono in modo ammirevole nell’ambito di o­nUMOZ. Tuttavia, su iniziativa di qualche operatore internazionale forse troppo interessato e non favorevolmente orientato nei confronti di quella che era, dalla fine della seconda guerra mondiale, la prima seria presenza delle Forze Armate italiane fuori dai confini nazionali (nello stesso periodo anche un’altra brigata dell’esercito operava in Somalia), dopo il ripiegamento del Susa ci furono nei confronti del Contingente Albatros in Mozambico delle poco gradevoli azioni di disturbo, delle prese di posizione polemiche sulla stampa internazionale. Che, giova precisare, si spensero rapidamente.

    Erano ancora i tempi della coscrizione obbligatoria, e in Africa avevamo portato davvero la crema dei soldati di leva, quei meravigliosi ragazzi di vent’anni che con la loro volontaria adesione alla missione in Mozambico costituirono realmente lo snodo tra il vecchio sistema della coscrizione obbligatoria e quello che ora è il servizio militare professionale. Ma stavano sotto le armi per un anno soltanto e certo non potevano assorbire tutto, maturare esperienze sufficienti ed imparare davvero il lavoro del soldato so
    prattutto nelle delicate condizioni di una missione ad alta intensità .

    Come quella in Afghanistan, per esempio?

    In Afghanistan tutto è andato bene, anche perché il passaggio al servizio militare professionale ha cambiato completamente il quadro di riferimento. Io, come comandante, ho potuto sperimentare entrambe le realtà e le posso confermare che il livello del personale professionale è straordinario. Le diverse motivazioni che determinano i volontari ad arruolarsi (motivazioni ideali, risposta ad una vocazione profonda per il mestiere delle armi o anche soltanto ricerca di un lavoro dignitoso e gratificante) in concreto convergono e spingono ognuno a dare costantemente il meglio di sé, tanto sotto il profilo umano quanto sotto quello tecnico militare .

    Mozambico, mal d’Africa. Kabul mal d’Afghanistan?Esistono davvero? Ci tornerebbe?

    Altrochè se esistono! E per quanto attiene alla seconda parte della domanda, le rispondo con una battuta, peraltro molto seria: Ho ancora bisogno solo di una settimana per riprendere fiato, e poi sono pronto a ripartire . Perché? In primo luogo, perché è il mio lavoro, in cui credo intensamente, e mi gratifica. In secondo luogo perché là dove regna un discreto disordine, tanto per usare un eufemismo, ci si sente utili, importanti.

    Terza ragione, i legami umani, di fratellanza in armi, di cameratismo che nascono tra soldati insieme per mesi in operazioni: sono vincoli fortissimi, indissolubili. Eppoi, c’è anche un pizzico di avventura, che non guasta, che insaporisce l’esistenza. Da ultimo, le confesso che mi sono reso conto, in quelle realtà molto povere ed essenziali, di quanto noi occidentali, qui, ci si complichi inutilmente la vita Ed anche questa constatazione, creda, ha un suo grande peso. Quindi, di notte, spesso tornano in sogno le colline d’Africa e, da qualche giorno, anche le montagne dell’Afghanistan .