Il testamento del Capitano

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    Non è sovrumana maestà quella del capitano Grandi che, ferito a morte, vedendo intorno alla slitta il cerchio silenzioso dei suoi alpini grida: «Che cosa sono questi musi duri? Su ragazzi, cantate con me: il capitano si l’è ferito, si l’è ferito: sta per morir». E allora, sulle desolate distese della steppa invernale, si leva un lesto e mesto corale di alpini, portato dal vento gelido della sera e guidato da una voce sempre più fioca di un morente. «Il primo pezzo al Re d’Italia… Il terzo pezzo alla mia mamma… Il quinto pezzo alla montagna che lo ricopra di rose e fior…». Però «si muore come si è vissuto». E se il dato unanime è l’amore e la devozione quasi filiale dei suoi uomini, significa che esistevano virtù morali e grandezza d’animo necessarie a giustificare un tale legame.

     

    Il 26 gennaio di quest’anno, anniversario della battaglia di Nikolajewka, ho conosciuto a Milano il nipote del capitano Grandi, l’ing. Guglielmo Maleci. Vado a trovarlo a casa il 20 febbraio e, con un brivido, mi rendo conto che è il giorno del compleanno di Grandi, nato 101 anni fa. Non ci avevo pensato… Entriamo subito in argomento: «Sono nato nel 1940 e non ho nessun ricordo personale dello zio. Giuseppe Grandi era, infatti, fratello di mia madre Anita.

    In famiglia ne ho sempre sentito parlare. Quando la mamma è morta – era il 2008 – sono giunti nelle mie mani tutti gli oggetti e le carte che la mamma aveva gelosamente custodito». E mi mostra, oltre naturalmente alla Medaglia d’Oro, alcuni plichi di lettere e tre raccoglitori accuratamente confezionati dal nonno, il padre del capitano Grandi: uno di fotografie, per lo più dello zio e uno con tutta la documentazione. È un materiale prezioso e ben ordinato, quello che Guglielmo conserva. Testimonia una fitta corrispondenza con i commilitoni di Giuseppe e con le loro famiglie, come ad esempio i genitori di Peppo Perego, anche lui caduto ad Arnautowo e anche lui insignito di Medaglia d’Oro. Un archivio che andrà studiato.

    Per ora chiedo a Guglielmo qualche ricordo tramandatogli dalla madre: «Mio nonno, Ciro Menotti Grandi, era sottufficiale dell’esercito. Aveva sposato una milanese e la loro prima destinazione per un breve periodo fu Napoli; venne poi mandato alle guardie di confine al Colle di Tenda. In quel periodo abitavano a Limone Piemonte, dove nacquero i suoi due figli: nel 1912 mia madre Anita, due anni dopo lo zio Giuseppe». Per i primi sei anni la vita si svolge a Limone. Dopo alcuni spostamenti di qualche anno, la famiglia torna definitivamente a Firenze. E qui Giuseppe segue gli studi superiori fino al diploma di ragioneria. Guglielmo mi mostra uno scritto di sua mamma sul fratello: «Nella prima giovinezza i suoi interessi si rivolsero sia allo sport sia all’arte. Per festeggiare il diploma di ragioneria, con alcuni amici discese l’Arno in sandolino da Firenze fino a Pisa, ricevendo pure un riconoscimento da parte della Gil».

    La vita militare respirata fin dall’infanzia lo spinge a frequentare l’Accademia di Modena. La scelta di essere alpino, secondo sua sorella, nasce negli anni della Scuola di Applicazione, che frequenta a Parma. Nel frattempo si fidanza con Witty Porrini, una fiorentina che conosceva dalla giovinezza. Un rapporto bello e nobile. Guglielmo conserva una struggente lettera di Witty ai genitori di Grandi, scritta dopo aver appreso la tragica notizia. «Lo ricorderò sempre», scrive. E infatti non si sposò mai. La prima destinazione è la Scuola Militare Centrale d’Alpinismo di Aosta. «Arrivò ad Aosta senza saper sciare e in pochissimo tempo divenne istruttore di sci e di roccia. Imparò ad amare moltissimo la montagna ». Venne ben presto chiamato a far parte del “Nucleo Pattuglie sci veloci” con sede a Breuil Cervinia. Guglielmo conserva anche la tessera di iscrizione alla Fisi. Frattanto la sorella Anita si sposa «con un fiorentino, uno dei primi periti aeronautici e si trasferisce a Milano. Nel 1938 nacque mio fratello Alessandro, nel 1939 Lisa e io nel 1940». In quello stesso anno Giuseppe viene destinato al 5º reggimento alpini, battaglione Tirano.

    Anita scrive nella sua memoria: «Allo scoppio della guerra fu mandato sul fronte occidentale dove partecipò ad alcune azioni che lo lasciarono molto perplesso sulla crudeltà della guerra. Mi raccontò di aver avuto percezione di quell’assurdità vedendo in una trincea un ufficiale francese caduto che aveva in mano una lettera d’amore scritta alla sua ragazza. Un episodio: sul Monte Bianco un suo alpino rimase ferito e lui se lo caricò sulle spalle portandolo a valle con un lungo percorso. Era forte come un leone, così dicevano i suoi alpini, che lo amavano e che lui amava». Nella primavera del 1942 si ricongiunge al 5º Alpini, accantonato a Rivoli Torinese per la preparazione alla Russia. «Nell’estate (il Tirano partirà il 20 luglio) va a Firenze per salutare i genitori e sua sorella Anita e noi tre suoi figli, in quel periodo sfollati a Firenze presso i nonni. Io non ho ricordi. Mia sorella Lisa ricorda che la prese in braccio e la alzò al cielo. Alla piccola di due anni sembrava un gigante. Fu l’ultima volta che i suoi lo videro ». «Lo zio aveva una fede viva. I nonni lo hanno sempre detto.

    Si nota anche dalle molte foto di montagna, in cui ritrae i crocifissi o piccole cappelle sommerse dalla neve». Anita ebbe una fitta corrispondenza con padre Narciso Crosara, il cappellano del battaglione, che di Giuseppe era molto amico. Furono proprio gli uomini della 46ª compagnia a trovare l’immagine che divenne “la Madonna del Don”; più precisamente gli uomini del plotone di Perego… Nota e commovente l’ultima confessione di Grandi morente, raccontata da Nuto Revelli: «Cammino accanto alla slitta dei feriti più gravi. Sotto una coperta Grandi è coricato a gambe piegate per soffrire meno. Uno sbandato, che da tempo camminava al mio fianco, mi chiede se sotto la coperta c’è un ferito grave. Non vorrei rispondergli. Penso per un attimo che voglia chiedermi un posto in slitta. Lo guardo appena. Il suo viso è disfatto, le mani avvolte in stracci, i piedi fasciati, cammina a stento, curvo, quasi trascinandosi. Gli dico che sulla slitta c’è il mio comandante di Compagnia, ferito gravemente all’addome.

    Camminiamo ancora per un lungo tratto, io sempre accanto alla slitta, lui sempre vicino a me. Parla di nuovo, con voce timorosa: chiede se il ferito è credente. È una domanda strana, lo guardo sorpreso. Capisce, dice di essere un cappellano della Julia, vorrebbe confessare Grandi. Ci penso su. I miei stati d’animo si confondono. Mi fa pena, poi diffido: penso che speri così di viaggiare un po’ in slitta; infine sento per lui quasi riconoscenza. Mi chino, alzo la coperta, chiedo a Grandi se vuole essere confessato. Grandi, con uno sguardo pieno di bontà, di sofferenza, acconsente. Il cappellano si avvicina, si piega in due per parlare meglio, e cammina, cammina a lungo, trascinandosi nella neve con uno sforzo immenso. Non si appoggia, non tocca la slitta. A tratti sbanda, come se dovesse restare indietro, poi si fa forza, si riprende. Si alza infine, affranto dalla stanchezza. Mi ringrazia. Si perde fra gli sbandati». Il cappellano era don Alfredo Battaglino.

    La figura di Grandi è leggendaria anche e soprattutto per l’amore incondizionato dei suoi L’unica fotografia che si conservi del capitano Grandi in Russia. uomini, segno delle vere virtù di un capo. «Il miglior comandante di uomini che abbia mai conosciuto», dice Revelli che, poco dopo averlo incontrato aveva affermato: «Era un po’ strambo, Grandi. Gli alpini però sentivano che con lui si poteva andare in guerra, ed era una vera fortuna averlo comandante».

    Eugenio Corti lo definisce «un ufficiale modesto quanto risoluto» e poco oltre «a Luca dispiacque vedere andar via il capitano Grandi: egli non lo conosceva che di vista, ma senza di lui si sentiva in qualche modo impoverito, tanto quell’uomo sconosciuto gl’ispirava fiducia: un vero padre nel senso alpino». Concreto, partecipe della vita dei suoi uomini, sempre primo nel fare e nel coraggio, generoso: sono virtù che non si improvvisano.

    Marco Dalla Torre