Il mulo ferito

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    Eravamo in marcia da tre ore, su per i canaloni che circondano le Tofane, su, sempre più su; là in fondo, sempre più in basso, il luccichio del ruscello sulle cui acque si rispecchiavano i raggi del sole d’agosto. Era una delle tante marce che noi, artiglieri di montagna, dovevamo fare come esercitazione del campo estivo: San Vigilio di Marebbe, Sennes, Lago di Braies, Croda Rossa, Cimabanche, Passo Tre Croci, Cortina, Val Travenanzes, ecc. tutte a piedi con i muli! Il cielo era terso di un blu intenso, il sole accecava gli occhi bagnati dalle gocce di sudore.

    Ad un certo punto il sentiero si fa più stretto, curva un po’ a destra, il canalone rimane sulla nostra sinistra… proprio lì un mulo mette lo zoccolo sinistro posteriore sul ciglio del sentiero, la ghiaia cede, lui reagisce prontamente arrancando sugli zoccoli ma il terreno cede ancor di più, gli scivola via, il conducente non riesce più a tenere la briglia è costretto a mollare tutto… Il mulo precipita rovinosamente per la scarpata roteando più volte su se stesso; c’è uno spezzone di roccia che fuoriesce dal terreno e lui ci batte proprio contro, il basto con il carico si spezza e va a fermarsi contro un cespuglio. L’animale ora è fermo nel greto del ruscello, inerme.

    Noi rimaniamo di sasso. Visto che sono infermiere il sergente mi chiama e insieme al conducente scendiamo a vedere; la colonna intanto prosegue per la vicina località di accampamento. Il mulo, immobile, è disteso con la testa a valle, le gambe aggrovigliate disordinatamente, il sangue esce abbondante da un grosso buco tondo in piena fronte arrossando l’acqua, la lingua ondeggia come una fiamma rossa sbattuta dal vortice del ruscello. Il sergente lo osserva, è teso, pallido, esita un po’, poi estrae dal fodero la pistola, punta alla testa del mulo, libera la sicura… in quell’istante io, preso non so da quale forza istintiva o di incoscienza, mi avvicino al sergente lo tocco leggermente, quasi amichevolmente, sul braccio, lo sposto fuori mira, e gli dico: «Signor sergente mi lasci provare a medicarlo forse bloccando l’emorragia lo possiamo ancora salvare…».

    «Non vedi – mi risponde – che ha le gambe rotte e una ferita troppo grossa, lo faremmo solo soffrire inutilmente! Se vuoi però ci puoi provare» e mette via la pistola. Mi avvicino al mulo nell’acqua gelida, gli prendo la testa fra le braccia e la corico delicatamente sul ciglio del ruscello, pulisco il buco dal sangue che però non si ferma, tolgo con la pinzetta i sassolini e altre parti estranee, disinfetto con quello di cui disponevo – acqua ossigenata – e tampono per bene il foro. L’emorragia si ferma, ma il mulo è sempre immobile. Non so più cosa fare, senonché illuminato da un antico fatto raccontatomi da mio padre, prendo con una mano un po’ d’acqua del ruscello e con l’altra mano ne spruzzo un po’ in ciascun orecchio.

    Come d’incanto il mulo comincia a scuotere la testa con un forte nitrito, le gambe arrancano per trovare appoggio, lo aiuto a metterle in ordine e lui si alza con uno scatto perentorio. Ora è in piedi, tremante; il vapor acqueo del respiro esce fumante dalle narici ed è molto agitato. Il sergente, sorpreso, dà l’ordine di tenerlo a bada finché non arrivi il camion dal campo base per trasferirlo al centro di veterinaria di Bolzano. Nel frattempo lo accarezzo e gli parlo, parole quasi senza senso ma gli parlo, passo la mia mano sul collo, sul garrese, piccoli schiaffi di affetto. In quel momento mi sento anch’io più tranquillo. Solo allora mi accorgo dei profumi che la vegetazione intorno emana, l’afrosità di bosco, di muschio, di resina, di ciclamino, di menta, profumi che solo chi ama la montagna può capire e apprezzare, quegli stessi profumi di cui, negli anni a venire, avrei voluto circondarmi ogni volta che mi trovavo in intima compagnia con qualche fidanzata. Passa qualche mese, la leva giunge al termine, mancano ormai solo due giorni.

    Il capitano mi chiama a rapporto, annunciandomi che il congedo è già operativo e che si sente in dovere di ringraziarmi per quanto fatto a quel mulo che, guarito, è stato rimandato in caserma. «Come – gli dico – il mulo è qui?». «Sì – risponde – è tornato alla 20ª batteria, se vuoi vederlo prima di andartene…». Lo ringrazio e lo saluto; corro alla 20ª ed entro col permesso dell’addetto; nella stalla una lunga fila di muli, li guardo uno ad uno, eccolo là è lui, lo riconosco! In fronte ha la cicatrice ben rimarginata ma è a testa bassa, tranquillo e silenzioso. Gli vado vicino, la mia mano lo sfiora come tempo prima, sul collo, sulla fronte, gli parlo, lui quasi impassibile se ne sta fermo senza darmi alcun segno… «Beh – dico – non posso pretendere che mi riconosca, in fin dei conti è un mulo… ciao» e me ne vado verso il portone d’uscita ma in quell’istante sento un forte nitrito, lungo, deciso; mi giro, è lui che con la testa voltata verso di me sembra dirmi addio! «Ma allora ti ricordi di me, hai riconosciuto la mia voce!».

    Torno sui miei passi, abbraccio la sua grande testa, lo accarezzo, gli dico ancora qualche parola d’affetto e lottando contro la voglia di restare ancora lì, me ne vado dopo un ultimo sguardo: la sua testa è ancora rivolta verso di me… Il treno mi sta portando a casa, dovrei essere felicissimo ma la malinconia domina il mio cuore per aver lasciato quel mulo: “Come mai questa tristezza, in fin dei conti è solo un mulo”, penso. È proprio vero: al cuore non si comanda.

    Carlo Casarotti