Il cuore alpino del Triveneto

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    L’anno che si è da poco concluso non è stato generoso con gli alpini in armi. A poche ore dalla notte di San Silvestro è arrivata la notizia della trentacinquesima vittima della guerra in Afghanistan. Un violento conflitto a fuoco con i talebani, un colpo di un cecchino che va a colpire un alpino del 7º Reggimento di sentinella in una torretta di una base avanzata e la tragedia si consuma in pochi minuti. Un’azione, che se non fosse stata segnata da un Caduto, sarebbe di assoluta normalità, appena degna di menzione in un comunicato stampa. Siamo in una terra dove endemicamente la vita e la morte hanno lo stesso valore e dove l’odio e l’intolleranza affondano le loro radici in una cultura ancora sprofondata nel Medio Evo.

    Matteo Miotto, partito da Zanè (Vicenza) carico di entusiasmo e convinto che un mondo senza guerra e sopraffazioni sia un traguardo possibile, è tornato avvolto nel tricolore. Ragazzo riflessivo, cresciuto in un ambiente dove i valori della tradizione veneta sono ancora forti, sapeva di aver fatto una scelta impegnativa arruolandosi volontario negli alpini. La probabilità, anche se remota, di andare incontro a rischi mortali l’aveva esorcizzata scrivendo, poco più che ventenne, un testamento morale di grande sensibilità e purtroppo anche profetico. La strada che aveva intrapreso era lontana dalle prospettive che gli venivano offerte da un contesto economico e sociale dove un posto di lavoro si trova, circola ricchezza e tanta gioventù pensa solo a far carriera, soldi e a divertirsi. Un suo commilitone lo ha definito tre volte alpino: a noi ne basta una, di alta caratura.

    Nato ai piedi del Pasubio e dell’Altipiano, con il Grappa che completa la cornice di un panorama unico nel suo significato simbolico e storico, col nonno alpino, ha sentito che le mostrine verdi rispondevano al suo sogno: rendersi utile alla Patria e contribuire alla crescita di una nuova umanità più giusta. Forte della sua esuberante giovinezza e formato nella personalità si dedicò con passione alla dura vita del soldato di montagna, sostenendo senza risparmiarsi le fatiche dell’addestramento, degli allenamenti alle competizioni, come i Ca.STA, dove ottenne brillanti risultati, e partecipando alle missioni all’estero. Ma quello che lo ha fatto diventare un alpino speciale è stato il suo attaccamento alle tradizioni della montagna intesa come scuola di vita. Basta leggere qualche suo scritto dove accanto alla nostalgia per le valli imbiancate e le luci della vigilia di Natale manifesta una carica vitale proiettata verso i futuri impegni.

    Del 2011 che stava arrivando scrisse: Sarà pieno di iniziative e progetti (per avviare i giovani a conoscere il mondo alpino) e non vedo l’ora di cominciare . Per questo a Thiene abbiamo vissuto con profonda commozione un momento irripetibile quando ci siamo trovati in migliaia davanti al Municipio, dove nella sala consigliare era stata allestita la camera ardente, per l’ultimo saluto. Circa 340 gagliardetti e 32 vessilli, quasi tutti accompagnati dai rispettivi capigruppo e presidenti di Sezione, i vicepresidenti nazionali Valditara, vicario, e Favero con una decina di componenti del consiglio direttivo, tantissimi alpini, sindaci con gonfaloni, associazioni d’Arma, tutta la cittadinanza assiepata lungo il percorso, hanno accompagnato in Duomo Matteo.

    Rendeva gli onori un picchetto armato del 7º Reggimento. In un silenzio irreale per una città nelle ore di massima attività e con una folla dei grandi eventi si è percepito, come raramente accade, il pulsare del grande cuore alpino del Triveneto, fatto di silenzi, compostezza e lacrime. Genitori e parenti, volti addolorati di alpini e gente comune hanno seguito un corteo che sembrava non finire mai. Per una volta nessun protagonismo: solo incredulità e sgomento per un progetto di vita stroncato dall’assurdità della guerra. Il celebrante nella sua omelia, dopo che il coro aveva intonato: Sono morti per l’Italia, onore ( ), ricordando l’entusiasmo contagioso di Matteo e la sua formazione all’ombra della parrocchia della Madonna dell’Olmo, sottolineava come a fronte di una disumanizzazione delle relazioni nella società di oggi, egli andasse alla ricerca della giustizia. Un giovane che credeva in una nuova umanità .

    Il giorno precedente, a Roma, erano stati celebrati i funerali di Stato alla presenza delle massime cariche istituzionali (assente solo il presidente Napolitano, indisposto). Una folla immensa che stipava la basilica di Santa Maria degli Angeli e la piazza antistante, ha reso omaggio all’Alpino Caduto. Questa bara avvolta nel tricolore ha detto all’omelia, l’arcivescovo mons. Vincenzo Pelvi, ordinario militare è come una preziosa reliquia della redenzione che si rinnova nel tempo . Ed ha concluso dicendo che da questo giovane, angelo del dolore innocente, arriva un invito a non cedere allo sconforto e alla rassegnazione .

    Vittorio Brunello

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    Pubblicato sul numero di febbraio 2011 de L’Alpino.