Il “Brigante” del Cavento

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    Primavera inoltrata, chi lo direbbe?! Il termometro resta sotto lo zero, la notte poi precipita vertiginosamente giù. E quando soffia il vento, nelle baracche si balla: l’aria gelida entra sinuosa in ogni pertugio delle giubbe, sotto alle maglie di lana. Danza in vortici come volesse giocare. Ci siamo abituati ormai e riusciamo persino ad addormentarci sfiancati dai lavori fatti durante il giorno. Il freddo intenso inghiotte ogni cosa e l’ultimo muro della nuova trincea lo abbiamo costruito con mattoni di ghiaccio.

    Manca poco, forse un mese. Eppure nonostante l’impresa si avvicini, lo spirito è quieto: ufficiali e alpini consci del pericolo, sono sereni e fiduciosi nella riuscita della prova. Una prova che è desiderio da troppo tempo. Una prova che abbiamo osservato sbinocolando giorno e notte. Una prova dall’aspetto maestoso, una cattedrale gotica, paurosa, con le guglie e i picchi a strapiombo sui crepacci spalancati come bocche in attesa d’inghiottire uomini e materiali. Una prova che si chiama Corno di Cavento. Sulla vetta come in un nido d’aquile, vive un manipolo di Kajserschützen intenti a scavar gallerie, all’erta forse, tuttavia certi che gli italiani mai oserebbero tanto, mai tenterebbero di raggiungere una posizione considerata troppo pericolosa. Ma non impossibile.

    Lo sapeva bene il vecchio colonnello Ronchi classe 1869, comandante della zona, che riceveva i nuovi Ufficiali assegnati lassù con laconico dire: “Si ricordi che nel mio vocabolario la parola impossibile non esiste!”. Conosceva i suoi figlioli, gente rotta alla rude vita del ghiacciaio. Come gli uomini del mio battaglione: per lo più valdostani e piemontesi mescolati a lombardi, veneti e friulani. Una provenienza mista cementata dall’intimità d’una vita aspra e schietta. Assai lontana dalle logiche dei tempi moderni. È questa la voce del tenente, poi capitano, infine colonnello Fabrizio Battanta, comandante della 242ª compagnia del Val Baltea. Essa ci parlerà della guerra sulle vette gelate dell’Adamello. Ci parlerà della presa del suo Cavento, montagna che come una calamita lo attirò a sé continuamente. È il racconto dei fatti legati alla guerra bianca nel 1917 dove ogni prodigio diveniva ordinaria amministrazione.

    È la guerra alpina. Il giorno avanti la conquista osservavo i tavolati azzurri che riempivano quella regione polare, mai dimenticata. Conoscevo con maniacale precisione ogni manovra che io, in testa ai miei alpini, avrei compiuto l’indomani. Ogni sasso che potesse costituire un appiglio, ogni passaggio difficile, ogni caverna naturale che ci avrebbe offerto riparo dal fuoco nemico. Scende la sera. Lasciamo i luoghi di sosta e ci portiamo verso le posizioni di attesa. Siamo a 300 metri in linea d’aria dall’obiettivo finale. Il silenzio scende sulla vedretta di Lares, sulla Lobbia, avvolge il Passo del Diavolo e il monte Fumo: un fragore sordo riempie le orecchie, è la voce della montagna che parla a chi la sa ascoltare. Ci mettiamo tranquilli, qualcuno riesce persino a dormire in quella notte chiara e senza vento di giugno, vigilia dello scontro preparato in quattro lunghi mesi. Quest’aria fine, purissima è di buon augurio.

    Alle 4.30 un boato desta la montagna. Il cannone da 149G, l’ippopotamo, sputa un colpo dal tuono pauroso. È lassù a Cresta Croce, trasportato a braccia dagli alpini. Lo sforzo maggiore fu quello di trascinarlo, tra moccoli, mugugni e sorsate di cognac, dal fondo valle alla punta Venerocolo. Impresa ciclopica, diranno. Per la presa del Corno, la cui eccitazione già sentiamo scorrere nel sangue, gli alpini ebbero l’ordine di smontarlo, trainarlo lungo il Pian di Neve e issarlo su fino a Cresta Croce. E ora che tuoni! che sputi! che colpisca il bersaglio! Gli austriaci si allertano, brulicano come formiche allarmate dalle fiamme. Fonogrammi, ordini, contrordini si susseguono a un ritmo sincopato. Alle 9.30 tocca a noi: il segnale è un razzo sibilante che veloce punta la fine del cielo e termina la sua traiettoria con una parabola perfetta. Come proiettili gli skyatori si spingono giù dal Passo del Diavolo e dal Lares; il battaglione Val Baltea, il mio, insieme al battaglione Mandrone e a tre Compagnie di volontari alpini avanzano come stabilito. Intanto l’ippopotamo sul rovescio di Cresta Croce e l’artiglieria sul Crozzon di Lares scagliano colpi a un ritmo cadenzato, quasi intonato. E il Cavento fuma, come un camino, come un vulcano pronto a fare faville.

    L’attacco intenso e continuo prova i nostri corpi vigorosi. Il colonnello Emilio Battisti figura d’ufficiale nobilissima così scriverà di quei momenti: “Si comprende come la salita procedesse con una lentezza altrettanto esasperante quanto inevitabile e in aperto contrasto con la necessità di far presto. Chi non ha preso parte ad una impresa del genere non può forse rendersi esatto conto dello sforzo fisico e morale che essa richiede. Essi non conoscono lo sgomento che prende quando l’appiglio, faticosamente raggiunto, sfugge lentamente alla presa delle dita intirizzite mentre il piede, ciondolante nel vuoto, cerca invano il nuovo appoggio. E tutto ciò ininterrottamente per tre ore, sotto l’assillo di un’incognita esasperante: ci spia il nemico lassù? Gli alpini mi guardano dal sotto in su con quegli sguardi interrogativi che ogni comandante ha visto e ricorda, e allora riprendiamo ad arrancare con rinnovata lena”.

    Alle 11.25 la mia compagnia raggiunge la ‘Bottiglia’, così era chiamata l’anticima nord del Cavento, per via di quella sua forma a recipiente. Il 15 giugno 1917 alle 12.40 tutti, da nord e da sud, raggiungono la vetta. Il Cavento è finalmente nostro! I mesi successivi trascorsero piuttosto calmi a causa dell’intensificazione delle forze su altri settori, dopo la ritirata di Caporetto e la successiva resistenza sul Grappa e sul Piave. Tuttavia, nonostante l’assenza di grandi azioni, la vita non era certo spassosa lassù. La temperatura in quei giorni oscillava tra i 32 e i 42 sotto zero. Ogni cosa era ghiaccio: gallette, scatolette di carne, vino. Le ricognizioni e gli spostamenti avvenivano per lo più di notte e nella bufera. Gli austriaci avevano rafforzato le loro posizioni: la vedretta di Lares era ormai definitivamente in mano nemica. E poi c’era la questione del Corno. Tutti sapevano che la presa del Cavento era divenuta una faccenda d’orgoglio ferito.

    Avrei scommesso che l’attacco sarebbe giunto a un anno esatto da quel vittorioso venerdì 15 giugno 1917. Era la beffa oltre al danno e così fu. Perdemmo la cima, fummo costretti ad abbandonare le nostre posizioni. Ma… Rimettere piede sul Corno rappresentava il mio unico obiettivo, oltre a una necessità per la nostra linea difensiva. Preparammo il piano d’attacco: azione dopo azione, come in un film. Il primo tempo vedeva la conquista del Cavento, il secondo tempo quella del monte Folletto. L’impresa sarebbe stata così compiuta. Alle prime luci di venerdì 19 luglio 1918, l’enorme pezzo da 149G diede il segnale d’inizio e un fragore mostruoso calò sulle vette. La montagna ferita perdeva i suoi pezzi: giganteschi massi balzavano ovunque nell’aria e poi giù sul terreno, enormi pinnacoli di roccia precipitavano nell’abisso dei ghiacci; i colpi, i proiettili, gli shrapnel rasentavano le nostre teste, sibilavano a pochi centimetri da noi.

    Venivano a cercarci, rabbiosi. Fu un inferno, sei ore di attacchi continui. Raggiungemmo infine il presidio nemico sulla vetta a quota 3.400: pochi superstiti stretti tra loro, nel fondo di una caverna. Debole fu la loro resistenza cosicché alle 10.30 il Corno era di nuovo nostro ed io nominato il ‘Brigante del Cavento’. Venne novembre e fummo chiamati, dopo trenta mesi ininterrotti, ad abbandonare quelle baracche scomode e traballanti, a lasciare quei villaggi improvvisati. E solo allora, nel profondo del cuore ognuno comprese che quella era divenuta casa e noi, una grande famiglia. Con quest’animo andammo incontro alla Vittoria finale, consapevoli d’aver compiuto addirittura l’impossibile per la difesa di quei monti e di quelle vallate che ci avevano visto nascere, quadrati forse e con un brutto carattere, ma certamente fieri e pronti a tutto per il bene dell’Italia.

    MIO PADRE, IL “CULUNEL”

    Intensa commozione. Il racconto indugia, poi riprende. Di fronte al figlio del “Culunel” Fabrizio Battanta, si fa fatica a non rimanere in silenzio. Perché nei suoi occhi, in ciò che dice la figura del padre prende forma in modo netto, limpido. Chiarissimo. Lo ricorda nella casa in Val d’Intelvi, in Adamello durante i pellegrinaggi, al mare con i nipotini. Prima al lavoro come geometra impiegato alle Ferrovie e poi in pensione, ma sempre con qualche cosa da fare. Tiene tra le mani una foto, con cura la poggia sul tavolo. “Ecco mio padre”. La pipa spenta incastrata sul lato destro della bocca.

    I denti piccoli, nascosti da un sorriso che raramente si allarga, a metà tra ironia e sarcasmo. Sul viso solchi profondi indice degli ottanta contrapposti a un’aria arguta, quasi fanciullesca, da vero brigante! Riprende: “E poi cos’altro vi posso dire di lui? era molto legato ai suoi, quelli con cui aveva combattuto. Si sentivano spesso e si incontravano appena possibile”. “E come papà? era severo?” “Ma no… soprattutto premuroso. Studiavo Ingegneria al Politecnico di Milano, ma a causa di una brutta allergia che avevo ereditato proprio da lui, mi mandò a Genova a terminare gli studi. E quando mi laureai venne a vedermi. Era orgoglioso”.

    La voce si rompe, avvicina agli occhi il fazzoletto, “Scusate, ma parlare di mio padre…”. Una commozione intensa che sorprende, e non si può commentare. Il “Culunel” se ne è andato ormai trent’anni fa, ma è come fosse ieri. Per la sua famiglia, ma anche per i tanti che lo conobbero bene. Tardò a sposarsi perché, al rientro dalla guerra, sembrava avesse pochi mesi di vita a causa di una ferita alla spalla riportata proprio durante la battaglia del Cavento. La moglie parecchio più giovane, gli diede prima due figlie femmine e poi, finalmente, il maschio che tanto aveva desiderato. E se la prima parte della sua vita ha del leggendario, la seconda fu del tutto normale. Era originario della Val d’Intelvi, sopra a Como, e nel 1915, allo scoppio delle ostilità, venne esonerato a partire perché considerato cittadino svizzero. Lui e il cugino Domenico Battanta.

    “Decisero allora di arruolarsi come volontari, pazzesco! Oggi si farebbero carte false e loro, invece, non ci pensarono due volte” l’ingegnere lo dice scuotendo la testa, ancora impressionato. “Partirono perché amavano la Patria e volevano difenderla”. Ancora qualche parola, qualche racconto. L’ingegnere guarda dritto nel vuoto, muove gli occhi come stesse cercando tra i ricordi qualcosa per noi. Sul tavolo oltre al ritratto ci sono il medagliere, il cappello e un paio di libri fotografici. “Fatene buon uso, poi riportatemeli. Sono per mio figlio. Si chiama Fabrizio, come il nonno”. Ce ne andiamo, avvolti dall’aria umida di Milano. E dai pensieri. Non è nostalgia e neppure sfiducia negli individui del tempo presente. È la constatazione certa che giovani pronti a sacrificare la propria vita per un ideale ve ne siano rimasti pochi. Siamo figli del nostro tempo. E proprio per questo sentiamo maledettamente pungente la mancanza di Fabrizio Battanta e di tanti come lui. Uomini di una volta.

    Mariolina Cattaneo