Essere direttore

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    Dal 1919 se ne sono succeduti molti, personalità illustri, indimenticate. Figure che hanno lasciato un’eredità che pezzo dopo pezzo ha costruito un giornale, il nostro. L’Alpino. Sto parlando dei Direttori. Tutta gente che si presenta da sé. Eppure a me il compito di tracciare un breve profilo dell’attuale e dei due predecessori. Mi appresto a metter su carta quanto nella mia zucca ora è solo pensiero. Senza pretesa alcuna.

     

    Lo ricordo ancora, nei vecchi uffici al primo piano. Il Generale. La sua figura slanciata, dritta e snella. Il passo lungo e deciso. Dall’aspetto pareva più un ufficiale di Cavalleria, ma poi, una volta conosciuti il temperamento e lo stile, allora ecco che ci ritrovavi l’uomo che per anni aveva saputo comandare giovani file di reclute. Di alpini. Cesare Di Dato, sempre puntualissimo, arrivava in via Marsala tre giorni la settimana nella sua serena e severa signorilità.

    Lavorava alacremente alla scrivania, talvolta esternava con piglio deciso i suoi pensieri a voce alta, poi di nuovo taceva. Sempre franco egli rispondeva ad ogni lettera, telefonata o invito che arrivasse in redazione. Niente pranzo, niente caffè, solo una barretta proteica. Per staccare, intonava vecchi canti religiosi. Stranezze da Generali… Egli adorava la sua truppa e la truppa adorava lui.

    Dopo undici anni la decisione di passare la stecca. Siamo nell’ottobre del 2006 e a raccogliere la sfida è Vittorio Brunello, vice presidente vicario fino a pochi mesi prima. Una faccia da uomo di montagna. Discreto, silenzioso. Era in ufficio ogni mercoledì e una volta al mese, anche di venerdì. Nessuno spigolo, mai uno scatto. Ho visto tanti alpini seduti di fronte a lui scambiare idee, chiedere un parere. Alle volte un consiglio. In qualche caso mugugni e sfoghi che il professore accoglieva sempre con prudenza. Mai un’esternazione d’affetto spontaneo.

    Lo stile essenziale tipico del montanaro che conserva ogni cosa, non spreca nulla. Nemmeno le parole. L’osservatore attento poteva leggergli negli occhi ciò che sentiva, abituato com’era a Essere direttore tener chiusi nel cuore emozioni e impulsi. ‘I silenziosi sono il sale della terra’, scrisse Carlyle. Poi un giorno di primavera la notizia delle dimissioni, nell’aria da tempo.

    Il vento nuovo soffia da est. Nulla a che vedere con le brezze primaverili. Piuttosto un tornado, monsignor Bruno Fasani, giornalista professionista. Naturale e impetuoso come un fiume in piena la cui forza rompe gli argini, cambia il corso e stravolge il panorama tutt’intorno. Coraggioso. Capace di scrivere con profondità di pensiero e di stile, in un lampo. Capace di spaziare da un editoriale intenso che mette a nudo l’uomo, le sue debolezze ma anche le sue perfezioni, al giornalismo in trincea. Passando per un corsivo pungente.

    Complesso disegnare come si conviene queste tre figure. Meglio saprebbe delinearne il tratto, il loro cappello alpino. Quello del Generale vissuto eppure curato, senza fronzoli (non sia mai!) né sbavature. Rigoroso. Poi quello consumato e tanto fiero del professore. Col fregio dell’artiglieria, del Sesto da montagna che prudente e lento procede, seguendo meticoloso il sentiero tracciato. Chiude il cappello del monsignore giornalista. Un bantam dei fratelli Cervo, un classico.

    Con la nappina verde del battaglione Edolo. Un destino che ritorna e accomuna: l’intrepido Antonio Valsecchi che scaglia un masso e mette in fuga il nemico. Un gesto repentino, sorprendente. Geniale. A voi di trovar le somiglianze.

    Tre cappelli, tre alpini, tre personalità diverse. Come un abito c’è chi tra loro meglio si è adattato alla mia figura e chi ad essa si è appena accostato. Eppure con tutti, credetemi, ne è valsa la pena.

    Mariolina Cattaneo