Emma e l’alpino perduto

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    È Renato Crivich il capogruppo degli alpini di Pallanza. Lui ci condurrà da Emma, come promesso. Puntuale all’appuntamento, in piedi nel piazzale poco distante dall’imbarcadero. Il lago alle sue spalle dorme sotto un cielo di nuvole che celano un velo d’azzurro tenue. All’orizzonte montagne coperte di neve, troppo lontane per destare desideri. “Bene, allora andiamo?”. Attraversiamo la strada che cinge tutto il lago e passa due regioni. Le vie sono strette, le case vecchie ma ben tenute. Poco prima del campanile, prolungamento d’una torre che ora non è più, sulla destra, sale una via, tra un muro e una casa di ringhiera. Un portoncino conduce a scale ripide, inseguite da un corrimano in ferro battuto, prodotto da mani abili, ormai dimenticate. Roba d’altri tempi, si dirà. Primo, secondo, terzo piano.

     

    Un ballatoio, un bagno esterno e qualche appartamento. La maniglia si muove: “Buongiorno, entrate. Entrate pure”. Sul tavolo un piatto, dentro un pacchetto chiuso con cura. Il tinello è pulito e spoglio, solo il necessario. Un’altra porta chiusa viene aperta davanti a noi e di fronte, seduta composta sopra ad un’ampia poltrona ecco la signora Emma, la persona più vecchia d’Europa. Emma Martina Luigia Morano nata il 29 novembre 1899. La sua esistenza ha attraversato tre secoli. Ha visto il succedersi di undici Papi. Ma tutto ciò non è dipeso dalla sua volontà, è successo e basta. “Sono sempre stata bene” dirà Emma un po’ annoiata da questo clamore che fatica a comprendere. Noi vorremmo sapere di più, ma siamo arrivati tardi. Emma è fragile e ha freddo.

    Comincia a sentire il peso del tempo trascorso. Forse è stanca di raccontare qualcosa che stupisce tutti, tranne lei. “Non ho mai preso medicine e prego sempre il Signore, e San Giulio perché mi protegga dalle persone cattive”. Gli occhi conservano ancora una flebile luce, guardano fissi davanti a mezz’aria. Come ci fosse qualcosa di invisibile che li attragga proprio lì. E forse c’è. La nipote si sostituisce alla voce stanca di Emma e racconta, racconta per una volta ancora questa cavalcata lunga centoquattordici anni. La voce pacata, dolce rivela nella pronuncia di alcune parole la sua provenienza. “Ero di Siusi, vicino a Bolzano”. E subito ritorna a parlare della zia. Guardo Emma disinteressata alle nostre chiacchiere perché troppo deboli e frammentarie per il suo udito. La guardo.

    Ho come l’impressione che il tempo non si accanisca su di lei, come se l’avesse volutamente dimenticata. È vecchia, ma bella. Piacevole da guardare. Sa di buono, ha il profumo della lana quando è calda. Ci racconta della sua infanzia: “Ero sempre malata e un giorno mia mamma chiamò il medico che mi salvò. Se avesse aspettato ancora qualche giorno sarei morta. Soffrivo di anemia, mi prescrisse di bere due uova ogni giorno e disse a mia madre di portarmi via, in un posto più caldo. Ecco che ci trasferimmo qui sul lago. E da allora sono sempre stata bene. Ho bevuto ogni giorno due uova e mangiato un etto di carne macinata cruda. Come mi aveva detto il medico. Era bravo il mio medico”. All’improvviso si volta e dice: “A Villadossola non c’era la guerra”.

    “Ma lei aveva un fidanzato alpino che dal fronte non è più tornato. Vero?” “Sì, ma non mi ricordo più”. Mente, Emma. “Mio papà era serio. Mio papà era severo e io non potevo mica fare quello che volevo”. “Ma l’Augusto era il suo fidanzato?” “Ci vedevamo e ci scrivevamo e poi basta”. Augusto, l’alpino è partito per la guerra e non ha più fatto ritorno. Emma stenta a raccontare come se il ricordo bruciasse. Augusto è sparito portando con sé i sogni di una vita insieme. Augusto promesso sposo. Era di Villadossola, abitava nelle case degli operai dietro l’acciaieria. Lì si conobbero e parlarono per la prima volta. Si piacquero e si vollero bene. Scandisco adagio le parole, mi avvicino al suo orecchio e le tocco la mano per attirarla a me: “Emma è un nome molto bello”. “Io mi chiamo Emma Martina.

    Quando mi portarono per battezzarmi avevo solo la madrina, mia zia Martina. Mio padre fermò un uomo lungo la strada e gli chiese se fosse disposto a farmi da padrino. Lui acconsentì purché mi venisse messo il nome di sua moglie morta. Ecco perché mi chiamarono Emma”. La nipote, in piedi nella stanza, annuisce. “Si ricorda, si ricorda tutto”. Sono trascorsi una manciata di minuti, il pendolo suona una dolce melodia come quella dei carillon. Sono le dieci. Tra un’ora saremo fuori di lì. Emma riceve solo dalle nove alle undici, poi basta. Ha le sue cose da fare e non fa eccezioni per nessuno, nemmeno per la televisione. Chi la vuole incontrare, deve attenersi alle sue regole. Lo capisco bene. Sulle spalle stanche di Emma, pesa una lunga esistenza, entusiasmante per la diversità degli eventi di cui furono protagonisti i suoi occhi; a tratti difficile, sofferta. Affrontata e superata grazie alla forza concentrata in un carattere poco malleabile, cocciuto. Duro come il granito. E come il granito capace di illuminarsi d’improvviso sotto a un raggio di sole e di svelare riverberi iridescenti.

    Un sorriso delicato, appena accennato, un gesto amorevole che ti avvicina a lei. È così Emma. Sul marito Giovanni solo due parole, ma noi sappiamo che lo sposò quasi per forza nell’ottobre del 1926. Ebbero un unico figlio nove anni dopo che morì a soli sei mesi. Nel 1938 Emma lo cacciò di casa perché manesco e da allora visse sola. E lo dice, lo ribadisce: “Sono sempre stata sola”. Come a dire d’aver superato ogni cosa con la forza esclusiva del suo cuore. Poi continua: “Ho lavorato tanto. Fino a 55 anni in stabilimento poi fino a 75 al Collegio Santa Maria e poi basta. Ho lavorato tanto”. Ripete. “Non ha mai parlato di morte” dice la nipote “solo ultimamente…”. Guardo Emma e le chiedo quando è nata. Gira di poco il viso: “29 novembre 1899. Ma quest’anno non festeggerò il compleanno”.

    Sento un groppo in gola. I colori si confondono e la vista perde la messa a fuoco. Non si può piangere se a morire è una vecchina di cento e tanti anni? Non si dovrebbe. Ma non è facile perché la caparbietà di Emma ti contagia. Il suo amore per la vita, nonostante tutto. La sua dolcezza ben nascosta sotto a una corteccia coriacea, all’apparenza impenetrabile. Qualche settimana fa camminavo per la strada, la coltre del freddo aveva ghiacciato la terra. La natura aveva cessato il suo divenire, imprigionata nel ghiaccio. E là sotto giaceva tra la terra e qualche foglia ingiallita, una margherita. Perfettamente conservata. Possibile? questo piccole fiore aveva resistito alla morsa dell’inverno, si era nutrita del sole pallido di dicembre. La sua caparbietà l’ha tenuta in vita. La sua cocciutaggine, la sua forza. Ecco Emma, come la margherita nel ghiaccio. Una sagoma robusta scolpita dall’incedere del tempo. Fragile eppure potentissima testimonianza affacciata su tre secoli. Cammina Emma ora solo con il suo pensare. Cammina e cammina, per dove chissà.

    Mariolina Cattaneo

    Vittorio e Renato: grazie!

    Cercare le tracce di Augusto non sarà facile. Telefono a Villadossola, il capogruppo, in vacanza al mare, tornerà solo a fine febbraio. Mi suggerisce di sentire il suo segretario, l’alpino Vittorio Bariletta. Trascorrono un paio d’ore, lo chiamo. Il vento soffia forte attraverso il telefono e giunge al mio orecchio. Così domando: “Disturbo?”. “No, il mio capogruppo mi ha avvisato. Sono qui davanti al monumento ai caduti di Villadossola, però non c’è nessun Augusto”. Resto in silenzio stupita. “Ah, capisco… grazie, non credevo si fosse già mosso…”. E Vittorio: “Andrò in sede a controllare. Abbiamo un quadro con tutti gli alpini che partirono per la grande guerra. Ci sentiamo domani”. Una voce pacata la sua, quasi senza accento né cadenze dialettali. Una voce gentile.

    Chiudo la telefonata e mi soffermo su questa “forza verde”. Incessante, operosa nonostante l’indifferenza dilaghi ovunque. Animata da un altruismo che dall’altro non pretende nulla. Assolutamente nulla. E che più dà tanto meno si aspetta di essere contraccambiata. Volevamo incontrare la signora Emma e con naturalezza abbiamo chiamato Crivich che si è adoperato per condurci da lei. Volevamo trovare l’Augusto e Vittorio lo ha fatto per noi. E grazie a loro, ecco un’incredibile sorpresa: Augusto non morì al fronte. Fu ferito, poi trasferito e inviato in congedo illimitato solo alla fine del 1919. Tornò a Villadossola, ma non trovò più Emma che a quel tempo viveva già con tutta la famiglia a Pallanza, sul lago Maggiore. I mezzi di allora non consentirono ai due promessi sposi di ritrovarsi. Finì così il loro amore.