Dall’Ortigara un monito alla fratellanza

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    Sull’Ortigara si sale in silenzio. Non c’è nessun altro luogo, infatti, che renda maggiormente il senso di sofferenza, della desolante follia umana, della tragica assurdità della guerra. Perché questa montagna porta ancora evidenti i segni della battaglia, degli eserciti che si contrapposero.

    Un massacro prolungato dal 10 al 29 giugno del 1917 nel tentativo, da parte italiana, di riconquistare la dorsale montuosa che va dalla val d’Assa all’Ortigara, fino al passo dell’Agnella a picco sulla Valsugana difesa dagli austriaci che occupavano posizioni naturali praticamente impossibili da espugnare.

    Fu una strage annunciata, che vide impegnati trecentomila italiani e centomila austriaci, con una sproporzione di forze se non fosse che gli austriaci, aspettandosi l’attacco, avevano creato trincee, scavato caverne e camminamenti nel cuore della montagna che arrivavano a finestre a strapiombo: erano nidi di mitragliatrici capaci di battere il fondovalle con micidiale precisione, mentre l’artiglieria imperiale – da posizioni sicure – copriva tutto l’arco del campo di battaglia.

    A nulla è valso il sacrificio e il valore di tanti: l’Ortigara è divenuto il calvario simbolo dei battaglioni italiani e degli alpini in particolare. L’Ortigara, agognato, conquistato e perso.

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    Nessuno sale impunemente sull’Ortigara. Oggi, percorrendo la valle dell’Agnelizza, lungo il sentiero che si snoda fra i mughi e le pietraie sino alle falde del monte della “trasfigurazione degli Alpini”, ci si imbatte ancora in residuati di quella guerra, frammenti di lamiere, scatolette arrugginite, spezzoni di filo spinato. Il rosso dei rododendri macchia una distesa verde che finisce quando il terreno diventa più martoriato e roccioso. È una montagna che racconta, per chi sa ascoltare. Ed all’ascolto ha invitato don Rino Massella, il cappellano della sezione di Verona, quando, all’omelia della Messa celebrata di primo mattino alla Colonna Mozza ha commentato la parabola del Buon Seminatore, dal Vangelo di Luca: “Ascoltare, più che parlare – ha detto – per sentire ciò che Dio vuol dirci nel fragore d’una società che sembra aver perso ogni valore”.

    Accanto all’altare, dopo la deposizione di una corona a la resa degli onori ai Caduti, era schierato il Labaro, scortato dal vice presidente nazionale vicario Sebastiano Favero, il ten. colonnello Stefano Fregona del 7° reggimento Alpini, il reggimento che ha avuto cinque alpini Caduti in terra afgana. E poi numerosi consiglieri nazionali, mentre facevano corona tanti vessilli e tantissimi gagliardetti, labari di altre Associazioni d’Arma, Gonfaloni con sindaci, le bandiere dei Kaiserjäger e dei fanti di Salisburgo e tanti alpini.

    Un abbraccio che è sembrato più imponente degli altri anni, a dimostrazione che il motto “Per non dimenticare” inciso sulla colonna è sentito e condiviso più che mai. Al termine del rito, si è formata una colonna che ha raggiunto, sul dosso vicino, il cippo dedicato ai Caduti austroungarici, dove è stata deposta una corona e sono stati onorati quanti, sul campo avverso, hanno perso la vita compiendo il proprio dovere.

    *

    Al rifugio Cecchin del Lozze, nel frattempo, era giunto il comandante delle Truppe alpine gen. C.A. Alberto Primicerj e s’era raccolta tanta gente, altre autorità, un picchetto del 7° Reggimento, tanti alpini scesi dall’Ortigara o provenienti dall’ampio parcheggio a valle. Dopo l’alzabandiera e l’Inno di Mameli cantato da tutti, alla cappella dei Caduti è stata deposta una corona dal vice presidente vicario Favero e dal generale Primicerj. Un lungo applauso ha salutato poco dopo l’arrivo del reduce di Abissinia Cristiano Dal Pozzo, 98 anni, di Rotzo, uno dei Comuni dell’Altopiano.

    Lo speaker e cerimoniere del pellegrinaggio, Luciano Bertagnoli, vice presidente vicario della sezione di Verona – la sezione che organizza ogni anno il pellegrinaggio assieme a quelle di Marostica e di Asiago – ha letto in apertura la commovente, ultima lettera dell’alpino Matteo Miotto, uno dei cinque Caduti del 7° Alpini nei sei mesi di missione nella provincia di Herat. Il gen. Primicerj ha preso per primo la parola rendendo omaggio al Labaro “che ci ricorda i nostri Caduti e anche il nostro dovere”; ha salutato “con affetto e gratitudine i tanti amici e famigliari degli alpini arrivati sin qui”, e poi l’assessore regionale del Veneto Elena Donazzan, i presidenti delle tre sezioni organizzatrici, i rappresentanti delle numerose associazioni d’Arma, i tanti sindaci presenti e in special modo Luigi Spagnolli, sindaco di Bolzano, “città che è anche sede del comando delle Truppe alpine e che l’anno prossimo avrà l’onore e l’onere di organizzare la prossima Adunata nazionale”.

    Riferendosi poi al reduce Dal Pozzo – per il quale ha sollecitato un applauso – ed ai reduci ha continuato: “Anche sulla base del loro esempio e a quello che ci hanno insegnato, gli alpini di oggi cercano di portare la pace in paesi lontani”. Ed ha aggiunto: “Queste montagne sono diventate un luogo sacro nel quale è stato versato il sangue di tanti uomini che indossavano divise diverse, soldati che vanno rispettati perché si sono sacrificati per un ideale in cui credevano. Negli anni il rispetto e la condivisione di importanti valori, come la solidarietà e la fratellanza fra i popoli, hanno fatto sì che i nemici di allora diventassero fratelli e alleati di oggi, con i quali lavoriamo, anche lontano dalla nostra Europa, per ristabilire la pace”.

    Primicerj ha poi ricordato le recenti missioni delle due brigate alpine in Afghanistan. “È stato un anno difficile (dal maggio 2010 all’aprile 2011, ndr) per la morte non solo del caporale Miotto, ma di altri 10 alpini e dei tanti che sono rimasti feriti: abbiamo pagato un prezzo alto, ma perché crediamo in valori nei quali hanno creduto i giovani dell’Ortigara”. “È con particolare emozione che intervengo oggi qui – ha esordito il vice presidente vicario Favero – emozione che mi viene da quando ero giovane e ascoltavo gli alpini del mio paese, reduci della prima guerra mondiale, che ricordavano l’Ortigara, il sacrificio e l’eroismo degli alpini. Su questa montagna, sul Pasubio e sul Grappa – ha proseguito – si è compiuto l’ultimo atto dell’unità della nostra Patria che festeggia quest’anno il 150° anniversario.

    Patria alla quale gli alpini hanno sempre fatto riferimento in guerra e in pace, tanto che non c’è celebrazione o manifestazione che non incominci con l’onore alla nostra Bandiera. È un’Italia in difficoltà in questo momento, economica e soprattutto morale – ha soggiunto – ma gli alpini sono pronti a fare la loro parte, con discrezione ma con tenacia, onestà e generosità, testimoni di un’Italia che deve prendere lo slancio”. Ed ha evocato la figura di Toni Covre, il fedele attendente di Giulio Bedeschi in Russia, scomparso pochi giorni prima. “Tre volte alpino: come combattente e reduce, alpino della seconda naia emigrato dopo la guerra e poi, tornato in patria, alpino sempre a disposizione degli altri, in silenzio, senza chiedere mai nulla.

    Questi sono gli alpini: uomini generosi, che fanno riferimento alla propria tradizione e ai propri ideali, alla famiglia, alla montagna, alla Patria, al senso del dovere e del coraggio, all’onestà e alla solidarietà che la nostra Associazione persegue”. “E quando parlo di alpini – ha soggiunto – intendo alpini in congedo e alpini in armi: due cuori di una sola, grande anima. È per questo che gli alpini ci sono, si trovano, lavorano, stanno insieme; ed è per questo che la nostra Associazione vive e vivrà, finché è, e sarà, capace di attingere la forza dai propri valori, dai nostri reduci, da quanti sono andati avanti, dai nostri veci, i nostri bocia, i nostri aggregati”. Ed ha concluso: “Qui, dall’Ortigara, montagna sacra a noi alpini in maniera particolare, voglio dire: alpini, guardiamo avanti, in alto i cuori! Finché ci sarà l’Italia ci saranno ancora gli alpini”.

    Un lungo applauso è seguito alle parole di Favero. Poi la celebrazione della Messa conclusa con la preghiera dell’Alpino e gli onori ai Caduti. Sino al tardo pomeriggio è continuato l’andirivieni di pellegrini sul sentiero che dal Lozze porta alla vetta. Poi nuvoloni neri hanno coperto l’Ortigara. Era tempo di lasciare sola la montagna.

    Giangaspare Basile

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