Come eravamo, come siamo

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    Questo è il testo che Giulio Bedeschi scrisse sul numero speciale de L’Alpino in occasione del 50º dell’ANA. È un testo straordinariamente attuale, a dimostrazione della fedeltà alle origini delle Penne Nere e della necessità che gli alpini continuino ad essere un punto di riferimento di valori per la società.

    Nata come atto di fedeltà alla sofferenza, come rinnovato legame di sangue tra fratelli superstiti, come volontà di tenere vivi in tempo di pace i motivi ideali che erano passati salvi ed intatti attraverso le fiamme di una guerra mondiale, l’Associazione Nazionale Alpini si affaccia ora al suo secondo mezzo secolo di vita. Molte cose sono cambiate nel mondo, in cinquant’anni: Stati crollati, nazioni sconvolte, confini saltati; dati geografici, storici, ideologici, politici, religiosi, economici, sociali che parevano volta a volta stabilizzati e inamovibili sono stati polverizzati, altri sono in discussione, altri ancora in espansione nella grande arena della realtà, in cui l’uomo persegue una sempre accresciuta misura di se stesso nella affannosa ricerca di un domani migliore.

    Nell’immancabile invocazione di sacri principi, in ogni parte della terra esiste contemporaneamente chi guida, chi soffre, chi comanda, chi patisce ingiustizia, chi combatte, chi uccide, chi tradisce, chi prega, chi geme, chi ha fame, chi ha paura. In nessun altro tempo della sua storia l’uomo è stato tanto forte, tanto potente per mezzi creati dalle sue mani, dal suo genio; ora piega al suo volere leggi della natura fin qui sconosciute, sconfina addirittura nelle profondità dei cieli; ma, proprio per questo suo strapotere, non è mai stato tanto in pericolo, nè tanto indifeso di fronte all’avvenire in cui respinge ed addensa le temibili incognite che di giorno in giorno non sa risolvere.

    In questa prospettiva gigantesca sospesa fra l’oggi e il domani, quale ruolo può ricoprire, quali compiti può ancora assolvere l’Associazione Nazionale Alpini, che affonda le sue radici e assorbe la sua linfa vitale nel terreno di ieri, e perfino dell’altro ieri?Ha ancora motivi e mandati di sopravvivenza, nel mondo di oggi e di domani? Innanzi tutto, ringraziamo Iddio che l’A.N.A. esista tuttora; ma non ringraziamoLo soltanto noi alpini, ringraziamoLo tutti noi italiani per aver consentito che l’A.N.A. sia sopravvissuta a tutti gli scossoni e i terremoti della seconda guerra mondiale, e di questo successivo ultimo quarto di secolo.

    Perché, modestia a parte, l’A.N.A. così com’è rappresenta ormai da decenni un pilastro fondamentale nella vita e nella storia del popolo italiano; un pilastro che per fortuna è infisso ben profondo nel terreno sacro e santo della nostra Patria, e promette di restare ben saldo nel tempo, per contribuire validamente a reggere quanto c’è da reggere nelle strutture essenziali della vita nazionale, anche per conto dei non pochi italiani che per inconsapevolezza giovanile, o per presunta furbizia di mezza età, o per stanchezza o delusione senile tutto accettano e sopportano, dalla insipienza all’onta e alla viltà, purché tutto sia equivoco ed impalpabile e pertanto si possa in ogni momento rinnegare e abbandonare, o almeno ricoprire e rendere invisibile col velo della irresponsabilità personale.

    Non a caso, in questa Italia in cui c’è tutto, ciò che più si stenta a trovare è appunto la bandiera d’Italia, e mani italiane che la levi no alta; e animi che la servano, cuori che la amino. Ebbene, gli alpini dell’A. N.A. non hanno esitazione: sono essi stessi pilastro, terreno e bandiera. Dinnanzi a tutti i vessilli e ai segnacoli stranieri che rendono variopinte le strade e le piazze d’Italia, gli al pini passano e dicono, oggi più che mai a tutti gli italiani: Fratelli, ricordatevi che questa è Italia, che anche tutti voi siete Italia; non profanate dentro di voi l’Italia .

    Non a caso, in questa Italia in cui trova cittadinanza ogni libertà, fino a fare di questa sacra parola un mercato d’ogni più bassa mistificazione, la libera convivenza civile è spesso conculcata, frazionata, impedita dall’accavallarsi di interessi precostituiti ammantati da teorie che fratturano la compagine sociale e armano uomo contro uomo. Ebbene: non a caso (e nonostante quei diffuso tipo di propaganda che, sotto l’etichetta di reducismo scambia le carte in tavola e vorrebbe tacciare gli alpini di guerrafondai per la peregrina ragione che gli alpini hanno fatto la guerra, come se chi si è salvato a stento da un incendio, perdendo per giunta una buona parte della sua famiglia nelle fiamme, da quel momento si potesse definire incendiario ) non a caso gli alpini dell’A.N.A. sono forniti di tale forza ed equilibrio morale da saper depositare ogni personale visione politica fuori dalla porta delle loro Sezioni e dei loro Gruppi, e sanno stringersi fraternamente la mano per il solo fatto di riconoscersi prima di tutto uomini, preconfigurando così in concreto una società italiana di più alto senso e responsabilità civile, quale nel consesso italiano, e non soltanto italiano, ancora non si vede.

    In altre parole, povere fin che si vuole, ma vere e sacre più di qualunque giuramento perché la meta a cui tendono è il bene o il male dell’uomo, gli umili alpini in questi anni hanno camminato in silenzio sulla strade della civiltà, e dando un esempio che può fare testo per chicchessia stanno aspettando pazientemente di essere raggiunti, nelle tappe verso un migliore avvenire, dalla restante parte degli italiani di buona volontà. Del resto, non è la prima volta che il futuro dell’Italia passa per la strada battuta dagli alpini. Col loro passo lento e lungo, insomma, gli alpini precedono. E attendono. E non sono raggiunti dal vociare inconsulto di chi è rimasto indietro a berciare. Sono forti, di une forza tranquilla. E lo sanno. Se la sentono vivere nel cuore.

    Sanno anche che tutti gli altri sono al corrente, la vedono. Intanto i veci osservano, si guardano pacatamente intorno come hanno sempre fatto in cammino. Attendono che ognuno in Italia riesca ad ascoltare e distinguere le varie voci del mondo, le soppesi, e infine tiri le somme. Nel frattempo tengono d’occhio i giovani alpini che si formano nelle caserme, sui monti, nella vita; sono orgogliosi di queste nuove leve perché sanno che si tratta di ragazzi in gamba, in nulla inferiori a quelli di una volta, così affermano con soddisfazione gli ufficiali e i sottufficiali che li addestrano e vivono con loro nei mesi della naja alpina.

    Ai bocia perciò sono spalancate le porte del l’A.N.A.; non hanno fatto la guerra, fortunati loro; meglio ancora, affronteranno con intatto vigore i problemi della pace, della realtà avvenire; li risolveranno, saranno a loro volta d’esempio ad altri, ai più giovani che ora stanno crescendo. Perché gli alpini dell’A.N.A. non durano in eterno, si sa, ma il cambio della guardia se lo danno non fra individuo e individuo, ma da generazione a generazione: è questo il sigillo della loro indistruttibile grandezza. Perciò l’A.N.A. resta, quella sì, e dura nel tempo: poiché l’Italia ha gran bisogno delle sue Penne Nere, tanto oggi come per i prossimi cinquant’anni. Fra un altro mezzo secolo, poi, si vedrà. Forse. tutto sommato, si dovrà raddoppiarle.

    Milano, luglio 1969.
    Giulio Bedeschi

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    Pubblicato sul numero di luglio agosto 2009 de L’Alpino.