Carlo Erba, soldato

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    “Noi vogliamo glorificare la guerra come sola igiene del mondo. Il militarismo, il patriottismo”. L’esaltazione del conflitto armato risaltava a caratteri cubitali sopra ai manifesti realizzati dai Futuristi: movimento che accostava artisti di ogni genere, pittori, scrittori e musicisti. Essi richiamavano a un atteggiamento nuovo nei confronti del concetto di arte e con forza inneggiavano alla guerra, a prendere le armi unico mezzo per un radicale cambiamento. L’odio verso l’Austria-Ungheria montava nel gruppo degli interventisti, ora dopo ora.

    Il sogno era una Patria unita con Trento, Trieste, Gorizia e le terre irredente. Molti trentini fuggirono superando valichi e ghiacciai per evitare l’arruolamento nell’Esercito austriaco. Erano disertori in fuga verso la Patria. Molti altri, invece, obbedirono alla chiamata e vennero arruolati nell’Esercito imperiale di Francesco Giuseppe, composto da uomini di ben undici nazionalità diverse che parlavano nove lingue oltre a numerosi dialetti locali. Uomini accomunati da un forte senso del dovere, da un ideale di Patria differente eppure parimenti nobile. E così l’Italia galvanizzata dalle lusinghiere promesse territoriali di Francia e Inghilterra, il 26 aprile 1915 firmò il patto di Londra, punto del non ritorno.

    Un mese più tardi, l’Esercito marciava: era la guerra contro l’Austria-Ungheria. Protagonista vivo e attento di questo scenario fu il giovane milanese Carlo Erba. Aveva partecipato alle manifestazioni interventiste insieme agli altri futuristi, suoi colleghi. Era pittore anche lui e nell’imminenza dell’entrata in guerra dell’Italia, decise di arruolarsi insieme agli amici Marinetti, Boccioni, Russolo, Sant’Elia, Sironi e molti altri a riempire le fila del Battaglione Lombardo Volontari Ciclisti Automobilisti. Sulla foto del tesserino d’appartenenza Erba è ritratto con gli occhi sbarrati colore dell’ebano. I capelli folti e scapigliati costretti dalla riga di lato. Un’espressione incredula, sorpresa. Come di qualcuno che ha fretta e smania d’entrare nel vivo di un evento. Ed eccolo infatti nell’autunno del 1915, combattere entusiasta insieme ai volontari lombardi nella presa di Dosso Casina.

    Si dimostrò subito ottimo scalatore, ben equipaggiato perché già abituale frequentatore delle cime. Dopo un anno di guerra torna a Milano per qualche giorno, non ha tempo però da dedicare a se stesso e neppure alla sua arte. È di nuovo alla stazione pronto per partire, questa volta arruolato negli alpini con il grado di sottotenente, forse per via di quella sua propensione alla montagna dimostrata durante la permanenza insieme ai volontari lombardi. Con le fiamme verdi sul bavero della giubba, visse svariati momenti di fratellanza con i suoi compagni, ma altrettanti di cupo orrore. Ferito durante un assalto è decorato sul campo e promosso tenente. Poco più tardi il 2 novembre 1916, a Punta Vallero, sulle alpi Giulie, salva la vita a due alpini feriti: sotto il fuoco nemico che imperversava incurante alla ricerca spasmodica dei loro corpi da trafiggere, trasporta a braccia uno ad uno i suoi compagni colpiti riportando una ferita alla mano.

    Riceverà per questo un encomio solenne e una Medaglia di Bronzo al Valor Militare. Dacché si trova in trincea circondato dall’odore di morte, tutto appare diverso. Con la mente torna ai tempi speranzosi in cui si inneggiava alla guerra; ai pomeriggi milanesi trascorsi a sognare un conflitto lampo gonfio di trionfi e di gloria. Ora, invece, riempie il taccuino di queste parole: “Ma perché si scrivono tante sciocchezze sulla guerra? Perché coloro che scrivono in generale non la vedono e non la vivono… Questa è la guerra che non ha vessilli e non ha inni, è la grigia uniforme monotonia di migliaia di uomini che aspettano vigilando, muoiono avanzando nell’irto groviglio di reticolati, è la musica del cannone e la rabbia delle raffiche di mitraglia”.

    Sfilavano i giorni e l’animo sensibile di Carlo si rifugiava nelle confidenze con i compagni, nei momenti liberi spesi stringendosi gli uni agli altri. Passò anche il secondo inverno di guerra e ottenuta una breve licenza, nell’aprile del 1917, Carlo tornò a casa. Era di nuovo a Milano, ma nulla era più come prima. Una città spettrale si mostrava dinnanzi agli occhi di quell’alpino artista arrivato dalle aspre alture dell’est. Spenti erano gli entusiasmi, sopita ogni forma d’arte, tutto taceva, nell’aria si perdeva solo, lontano il fischio della locomotiva a vapore.

    Alla stazione in attesa c’è la sorella Bianca. Carlo ha portato per lei dal fronte un gattino bianco. Quel piccolo animale, segno d’una normalità agognata e aliena, sarebbe stato l’ultimo regalo. Dopo qualche giorno immerso nell’affetto dei suoi cari, Carlo raggiunge il battaglione sopra ad Asiago e nella notte tra il 12 e il 13 giugno 1917, durante un assalto all’arma bianca sull’Ortigara, cade colpito da una scheggia di granata. I barellieri raccolgono la salma, la trasportano giù nel vallone sottostante il Passo dell’Agnella e la ricoprono di terra e sassi.

    Nei giorni successivi quei luoghi sono violentati dall’artiglieria austriaca che ne cambia profili e morfologia. La salma di Carlo Erba non sarà mai più trovata, nonostante le numerose ricerche fatte dalla famiglia alla fine della guerra. Perché la guerra fu anche questo: l’eclissi di talenti incredibili, persi per sempre. Essa sbriciolò di colpo gli album colmi di pagine bianche disposte ad accogliere i tratti decisi e vigorosi di pittori, caricaturisti, disegnatori. A colori o in bianco e nero. Eppure quelle notti trascorse lassù, Carlo Erba riuscì persino a raccontarle in un abbozzo di poesia: “Ha ogni tenda un canto/ ogni tenda trapuntata d’oro/ per il lume interno/ e ogni canto dice/ d’una bella lasciata alla pianura/ d’una madre lontana…”. Ultimo segno d’un triste epilogo.

    Mariolina Cattaneo