Basovizza, impossibile dimenticare tanta crudelt

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    Il 10 febbraio 2010 a Basovizza, una frazione di Trieste sul margine dell’altipiano carsico, sono stati ricordati i Martiri delle Foibe e l’esodo della popolazione italiana dall’Istria e dalla Dalmazia, con una semplice cerimonia vicino al pozzo della Foiba, ora monumento nazionale. Le foibe sono un capitolo tragico del nostro Paese, rimosso per tanto tempo e non ancora del tutto proposto non solo all’Italia ma alla coscienza del mondo ad una lettura in chiave storica.

    Era l’8 settembre 1943. In Istria la notizia dell’armistizio arriva il giorno dopo. L’esercito italiano si sfalda. Tranne pochi tentativi di mantenere una presenza militare (tra cui un reparto di alpini) tutti cercano di tornare a baita . L’Istria rimane indifesa e viene subito occupata dai partigiani di Tito, il cui ordine è: bisogna slavizzare i territori occupati, gli italiani devono sparire. Ed iniziò il massacro. Le disposizioni prevedevano che gli italiani avrebbero dovuto essere prelevati in gran segreto di notte, completamente denudati, uccisi e gettati nelle foibe. Qualche bomba a mano difensiva avrebbe disintegrato i corpi e fatto franare le pareti delle foibe in modo da nascondere per sempre il misfatto.

    Le misteriose sparizioni notturne sarebbero comunque servite a spaventare chi non veniva ucciso e l’avrebbero indotto a lasciare il paese fuggendo in Italia. Un genocidio perfettamente programmato. Ma l’esecuzione non fu perfetta. Ci furono sadiche torture e violenze gratuite, ci furono vendette private e omicidi per rapina. Molte persone furono gettate nella foiba ancora vive. Molto spesso le vittime non vennero spogliate e non vennero fatte crollare le pareti delle foibe. Ciò ne permise la scoperta in ottobre, quando i titini si ritirarono. La seconda fase del genocidio iniziò alla fine della guerra in Istria e si estese anche nella Venezia Giulia (Trieste e Gorizia), e questa volta fu ancora più tragica: non si trattò più di alcune centinaia di morti come in settembre in Istria, ma di migliaia.

    Le disposizioni di Tito dicevano di eliminare tutti coloro che avrebbero potuto ostacolare la slavizzazione di quelle terre e le sue mire espansionistiche che arrivavano fino al fiume Tagliamento. In tale ottica non vennero risparmiate neppure personalità di spicco dell’antifascismo e partigiani non comunisti. Le tesi giustificazioniste, che riducono la tragedia delle foibe ad una mera vendetta slava per le violenze e l’aggressione fascista, sono state recentemente confutate e condannate dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. Il 10 giugno 1945, dopo 40 tragici giorni di occupazione, le truppe slave dovettero abbandonare Trieste e qui il genocidio cessò, ma nessuno sa quanto durò nei territori che rimasero in mano alla Jugoslavia.

    In totale mancarono all’appello tra 10.000 e 15.000 italiani della Venezia Giulia, Istria e Dalmazia. Furono oltre 300.000 coloro che dovettero abbandonare tutto per fuggire (spesso anche rocambolescamente) in Italia, rei di essere italiani, ed in Italia vennero spesso accolti con ingiurie, maltrattamenti e sputi, e con l’accusa di essere fuggiti dal paradiso socialista di Tito. Vennero smistati in campi di raccolta fatiscenti, sparsi per tutta la Penisola. Per rendersi conto della vastità dell’esodo basti dire che da Pola, all’arrivo degli slavi, fuggì in Italia il 98 percento della popolazione. In pratica l’intera cittadinanza.

    Il mercoledì 10 febbraio 2010, Giorno del Ricordo , era una giornata fredda che non prometteva niente di buono. Un po’ di neve e di bora, ma si sapeva che sarebbero presto aumentati. Sulla spianata in mezzo ai radi pini si sono schierate le rappresentanze degli esuli istriani e dalmati con i loro vessilli e stendardi, alcune scolaresche, le autorità civili e militari, le associazioni d’arma e gli alpini di 18 Sezioni con i loro vessilli.

    Ai lati di un palco, coperto e riparato per la celebrazione della Messa, completavano lo schieramento il Labaro dell’ANA scortato dal presidente Corrado Perona, dal vicepresidente vicario Marco Valditara, dal vice presidente Cesare Lavizzari e dai consiglieri nazionali Giuliano Chiofalo, Nino Geronazzo e Franco Munarini. Infine, il coro ANA Trieste Nino Baldi ed i gonfaloni della città di Trieste e di altre città della Provincia, con i rispettivi sindaci.

    Tra le molte autorità, oltre al sindaco di Trieste Roberto Dipiazza, il presidente della Provincia Maria Teresa Bassa Poropat, il questore di Trieste Francesco Zonno, il prefetto Alessandro Giacchetti e Paolo Sardos Albertini, il presidente della Lega Nazionale, il sodalizio che dal 1891 opera per la salvaguardia e la diffusione della lingua e della cultura italiana. Sull’attenti, con le note dell’Inno nazionale, assistiamo all’alzabandiera sul pilone donato dall’ANA in occasione dell’Adunata del 1984. Poi vengono poste corone d’alloro alla base del monumento.

    Durante la cerimonia aumentano notevolmente la bora e la nevicata. Raffiche gelide portano aghi di neve che colpiscono la faccia, e gli alfieri faticano a tenere i labari ed i vessilli. Diventa una vera bufera di neve mentre la Messa in suffragio degli infoibati viene officiata dal vescovo mons. Giampaolo Crepaldi. Brevi, brevissimi i discorsi delle autorità: nessuno si sente di tenere il pubblico, tra cui i ragazzini delle scuole, sotto le sferzate della bora. Con l’uscita dei gonfaloni e del Labaro dell’ANA accompagnato dalle note del Trentatré ha termine la cerimonia ed i partecipanti defluiscono in una lenta colonna di macchine per le anguste stradette nel bosco verso la città.

    Diverso è l’itinerario degli alpini, che si ritrovano in una trattoria ad un paio di chilometri da Basovizza per un breve ristoro ed un piatto caldo di jota, la tipica sostanziosa minestra triestina. La trattoria è sul ciglio della bellissima Val Rosandra, resa purtroppo invisibile dalla neve che continua a fioccare, come invisibili restano in lontananza il golfo di Trieste e la costa istriana.

    Proprio sotto la trattoria ci sono le pareti su cui la brigata Julia aveva istituito la Scuola di Roccia per i suoi alpieri: la prima Scuola Militare di Roccia in Italia. Una scuola di alpinismo al livello del mare!

    Dario Burresi

    Pubblicato sul numero di marzo 2010 de L’Alpino.