Anche per gli alpini vivere è cambiare

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    Da sempre c’è un motto intorno al quale tento di scandire la mia esistenza: “Vivere è cambiare”. Mi aveva colpito fin da giovane, quando per caso mi ero avvicinato alla figura di John Henry Newmann, docente ad Oxford, finissimo teologo e poeta, poi passato alla Chiesa cattolica e divenuto cardinale. C’è un proverbio che dice che il sasso che rotola non fa muschio. Ma non è questo il senso del motto.

     

    Il sociologo Baumann, recentemente scomparso, parlava invece, in questo senso, di modernità liquida, ossia di una società dove la rapidità dei cambiamenti non consente più di sedimentare nessuna idea o principio ispiratore. Tutto è mutevole e aggiungeva “quando il ghiaccio si fa sottile, ci si salva con la velocità”.

    Ossia, quando la società e la cultura perdono spessore e solidità, tutto si traduce in una frenesia dispersiva che non porta da nessuna parte. Ma questo non è il cambiare di Newmann. Sostengo da tempo che l’Ana si presenta con più volti. Quello pubblico, solidaristico, ufficiale che rende il Paese orgoglioso degli alpini e gli alpini orgogliosi di appartenervi. È quello che è entrato nel cuore della gente e che annuncia valori di tale nobiltà, da diventare punto di riferimento e coscienza civica non solo per chi vi appartiene, ma per tutta la popolazione che stima gli alpini e li ammira. Per quello che sono e per quello che fanno.

    Poi c’è un secondo volto. È quello dei Gruppi, delle Sezioni. È il volto dove, come succede anche nelle famiglie, ci si confronta con le fragilità, il valore, il carattere, le ambizioni, le rigidità delle persone. È un volto che cambia i connotati in continuazione, per le tante variabili, come succede in un organismo vivo, dove si somatizzano eventi belli e meno belli. È l’habitat dove spesso gli altri sono la carica vitale e l’entusiasmo che ci porta avanti, ma anche lo spazio di malumori, incomprensioni, piccole gelosie. Come diceva Renan, basta essere uomini per essere dei poveri uomini. È certamente questo lo spazio in cui la mediazione, l’equilibrio di chi ha responsabilità, la capacità di compensare gli scricchiolii dei più fragili, diventano più preziosi per far in modo che il motore non si inceppi per la presenza di qualche… granello di sabbia.

    C’è infine un terzo volto dell’Ana, ed è quello delle responsabilità, o dei capi, come li definisce qualcuno, non senza un pizzico di polemica. È su questo terzo orizzonte che mi tornano preziose le parole di Newmann, vivere è cambiare. Compito del leader è quello di condurre avanti, suscitando entusiasmo e aprendo alle novità, e chi ha la responsabilità di questo impegno deve essere aiutato con la stima e la collaborazione. Ma essere capi non può diventare una forma di ostinata conservazione del posto.

    È la sindrome del nido, come si dice in psicologia, quando il potere e i suoi piccoli presunti vantaggi diventano una forma di intossicazione di cui non si riesce più a fare a meno. E allora quello è il momento in cui, più che condurre aprendosi al nuovo, ci si ferma immobili nelle proprie certezze, seduti sulla poltrona delle abitudini che garantiscono immagine e tranquillità. È qui che serve far proprio il vivere è cambiare. Per rinnovare se stessi, accettando la sfida delle ripartenze, e per fare in modo che intorno a noi tornino a circolare folate di novità.

    Bruno Fasani