Alpini, ponti dell’umanità

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    Quando si fa una inaugurazione è sempre il rito a prendersi la scena, com’è nella logica dei fatti. E con il rito irrompe, al seguito, tutto il fiume di convenzioni, fatto di saluti, ringraziamenti, dichiarazioni di intenti, scambio di omaggi. In qualche modo si ha l’impressione di sapere già in partenza quello che accadrà, come se il film che passa fosse un copione già visto e risaputo. Ero a Livenka il mese scorso quando l’Ana consegnava alla città il ponte che univa le due zone più importanti del Comune: Livenka, appunto, e Nikolajewka.

    Una benedizione per tutti, ma in particolare per quelle madri e nonne che ogni giorno dovevano guadare il fiume, estate e inverno, per portare i bambini a prendere il pullman per andare a scuola. Perfino il sole, che picchiava duro, sembrava voler dare colore alla già colorata fantasia di abiti e oggetti con cui i figuranti davano il benvenuto. Una fantasia iniziata il giorno prima, quando, nella piazza di Birjuč, si era firmato il Patto di Fratellanza tra la città di Brescia e quella di Livenka. Era in questo contesto di gioiosa celebrazione che ho cercato di ascoltare qualcosa da portare a casa, nel serbatoio della coscienza, sganciato dall’ovvio del copione già visto. Alla fine sono due le schegge che mi sono rimaste dentro. La prima mi è venuta dal Presidente della Regione, politico raffinato e uomo di spessore. Terminando il suo intervento se n’è uscito con una frase che mi ha fatto sobbalzare. Dopo le tante cose riguardanti lo scenario socio-politico, ha chiuso dicendo testualmente: «E non dobbiamo dimenticarci di mettere Dio al primo posto». Erano parole che uscivano dalla bocca di un uomo nato quando ancora la religione in Russia era oppio del popolo e dopo non molto tempo da quando praticare la fede poteva costare la Siberia. Ma in quelle parole e nel contesto del discorso in cui sono state pronunciate, erano piuttosto un principio fondativo, giusto per ricordare che una società senza valori grandi e oggettivi finirà per consegnarsi a quelli degli uomini, spesso tirati fuori dal cilindro dell’opportunismo per ragioni ideologiche ed elettoralistiche. Senza dimenticare che a estromettere Dio dalla storia, si finisce per mettere qualche altro al suo posto. Pensavo questo e alle nostre millenarie radici cristiane, in un momento dove, per qualcuno, anche l’odore di incenso suscita qualche rigurgito di orticaria. C’è poi una seconda scheggia che mi porto gelosamente nell’animo. A regalarmela il nostro Presidente. È stato il suo continuo proclamare la pace, come obiettivo primo del nostro essere alpini. Quasi un mantra che ha accompagnato ogni suo intervento in terra russa. Certo di pace parlano tutti e nella retorica di questo sostantivo si bagna anche certo pacifismo che odora di tutto tranne che di pace. Ma non era questa la pace del nostro Presidente, quanto il suo rimando continuo a rapporti umani capaci di sprigionare alleanze, collaborazioni, stima, fraternità… Quasi un programma di vita per la nostra associazione, in una fase storica in cui si tende a far dipendere la pace solo dalle scelte politiche o da iniziative che vengano dall’esterno. Soprattutto in un clima sociale in cui la rissosità e la contrapposizione la fanno da padrone. Sentimenti che rischiano qualche volta di infiltrarsi anche nel nostro vissuto alpino, magari amplificati dalla rete, usata spesso come strumento per colpire. Dire che la vocazione dell’Ana è una chiamata alla pace è qualcosa più di una speranza o di uno slogan retorico.

    Bruno Fasani