In ricordo di Urriani

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    A cinquant’anni di distanza dalla tragedia del Vajont, vorrei ricordare come si sono svolti i fatti ai familiari del geniere Giovanni Urriani e a tutti coloro che quella notte hanno perso parenti e amici. Poco prima della mezzanotte del 9 ottobre, nella caserma Fantuzzi di Belluno, suona l’allarme e l’ufficiale di picchetto irrompe nelle camerate della compagnia genio Pionieri intimando a tutti i militari di adunarsi nel più breve tempo possibile, in tenuta tattica, davanti al magazzino.

    Ci dettero degli attrezzi, pale e picconi, salimmo su due automezzi e ci dirigemmo verso Longarone. Nessuno di noi sapeva che cosa fosse realmente successo, lungo il Piave. La gente cercava di capire che cosa avesse fatto ingrossare così tanto il letto del fiume. Noi intanto capimmo che qualche cosa di veramente grave era accaduto. Quando si fermarono i due automezzi al comando del tenente Liaci, scendemmo. La strada era interrotta da una pattuglia della polizia stradale con luce blu accesa che illuminava una scena raccapricciante: da un lato una donna e dall’altro lato una mucca, annegate. Ci incamminammo verso la ferrovia, nella speranza di trovare il binario agibile; dall’imbocco la luce della luna illuminava il binario, era ritorto su se stesso come il nodo di una cravatta. Sulla strada per Longarone si trova la val Gallina, dove la nostra Compagnia era solita montare il ponte Baylei. Nella notte della tragedia del Vajont i due genieri furono portati via dalla furia dell’acqua. Nei pressi della valle, il tenente Liaci – che quella notte si comportò da vero ufficiale – fermò la Compagnia e disse: “Là c’era la tenda con i nostri due genieri di guardia”. Quella tenda era stata travolta dall’acqua insieme alla struttura del ponte, ancora da montare. Il tenente Liaci, guardando l’altro versante della valle dove si vedeva la luce di un’osteria disse: «Speriamo che i ragazzi abbiano disobbedito, che abbiano lasciato il posto di guardia e che siano andati a bere un’ombretta all’osteria… in caso contrario…». Ci diede l’attenti e insieme recitammo la Preghiera dell’Alpino. I nostri giovani non avevano disobbedito e l’acqua del Vajont se li era portati via. Ai loro familiari e agli alpini del gruppo di Acquasanta Terme voglio dire che quella notte i due geniere hanno avuto gli onori e la preghiera della loro Compagnia. Proseguimmo poi verso la montagna, verso Longarone, nella vana speranza di trovare superstiti. L’unico segno di vita che incontrammo fu il pianto di una bambina che era stretta tra i corpi senza vita di mamma e papà e che venne salvata dalle mani pietose di due infermieri della Croce Rossa, provenienti da sopra Longarone. Aiutammo i soccorritori: il pianto di quella bimba, rimasta miracolosamente in vita, unica testimone di quell’immane tragedia, lacerava la valle. L’enormità di quel disastro era tale che la mia memoria rimase annebbiata per ore e ore. Ripresi coscienza solo nel momento in cui il pianto dei parenti delle vittime invase la valle e il loro dolore si confuse con il nostro senso d’impotenza e disperazione. Ho scavato, abbiamo scavato, abbiamo fatto di tutto e di più, ma l’acqua e il fango e le pietre e le macerie si erano trascinati via ogni forma di vita.

    geniere alpino Nereo Ceccato (cell. 339/6337524) – Gruppo di Collegno, sez. di Torino

    C’è qualcosa di struggente e di mistico in quella Preghiera de L’Alpino davanti al posto dove c’era una tenda con due alpini che ora non ci sono più. Un’emozione che rivive dopo cinquant’anni e che ci viene restituita agli occhi e al cuore come se fosse ieri.