Natale 1942, dinnanzi a Novo Kalitwa. Trincee di neve scavate nella neve, e in esse i miei alpini della Julia infissi nella ghiacciaia, tenere la linea.
Tutto intorno, come vetro, i trenta sotto zero; e cassette vuote di munizioni sparate per tutto il giorno: i russi avevano santificato il Natale venendo all’attacco per sei o sette volte. Sopra, il cielo grigio sporco, un gonfio tetto di nubi senza orizzonte.
Ancora un’ora di luce, poi sarebbe calata la notte a mordere ancora di più i poveri cristi che se ne stavano lividi, già rannicchiati a offrire minore esposizione al gelo.
Avvicinandomi alla piazzuola del primo pezzo, che doveva poi saltare in aria due giorni dopo, vidi un artigliere alpino solitario seduto su una cassetta che aveva trascinata dinnanzi allo scudo del cannone per ripararsi un poco dal vento; accovacciato, s’era messo sulle cosce a guisa di tavolino un pezzo di cartone catramato su cui teneva fermo col guantone un foglietto; aveva in bocca, ficcata quasi per intero, una penna stilografica e guardava trasognato e immobile le nubi dalla parte del Don.
Udì, però, il crocchiare della neve sotto i miei passi, si rigirò, poggiò anche l’altra mano sul foglietto, mi sorrise; imbacuccato com’egli era, il sorriso spuntava appena dal viluppo del passamontagna calato sul mento e dalla sciarpa di lana che incorniciava il viso, attorta al collo e girata sul capo a salvare dal vento il cappello alpino.
Fatica, a scrivere , dissi.
Mi sorrise ancora, a denti stretti per reggere la stilografica; poi la sfilò dalla bocca per parlare.
Scarogna nera , brontolò. Ogni quattro parole si gela l’inchiostro, mi tocca sgelarlo in bocca. Mezz’ora per scrivere cinque righe. Se dura così, finisco la lettera a Pasqua .
Un caporale si affacciò dalla balka, lo chiamò, cominciava il suo turno di guardia. L’artigliere si alzò dalla cassetta, si sfilò un guanto, scostò il bordo del cappotto, mise la lettera nella tasca della giubba.
Anche a Natale, ostrega… , mi disse ammiccando.
… Notte, sior tenente . Raccolse il suo cartone catramato, si avviò.
Ci si vedeva ancora un poco, mezz’ora dopo i russi avevano ripreso a tirare coi mortai, quando dovetti buttarmi fuori dalla tana ufficiali perché mi avvertirono che c’era un ferito all’ultimo posto di vedetta, verso la valletta del fiume Kalitwa.
Corsi. Lui era steso sulla neve, prima ancora di inginocchiarmi gli tolsi il fucile di tra le gambe perché certamente aveva il colpo in canna senza sicura, mentre un artigliere tentava di sfilargli dalla bocca la penna stilografica e lui la teneva dura tra i denti serrati perché non capiva, aveva già cominciato a morire.
Non la molla , disse l’artigliere tirando, concitato.
Può soffocarsi .
Lascia stare , dissi.
Certo che non stava bene il fare la guardia con una stilografica in bocca, ma lui poveretto la teneva calda per subito dopo, appena sarebbe smontato, e poter scrivere; intanto moriva, e in fretta anche, notte sior tenente.
Ma aprì gli occhi e mi guardò, mi sorrise stiracchiato (e quello sguardo e quel sorriso furono il meglio del mio Natale ’42), si sforzò di alzare la testa dalla neve e con lo sguardo puntava verso la sua giacca, tirava il mio sguardo verso il posto della tasca sotto il cappotto. Capii subito, per fortuna. Infilai la mano, trassi la lettera, gliela mostrai portandogliela a un palmo dagli occhi, già stentava a vedere.
La finisco io, subito, sta’ sicuro, la imposto stasera dissi .
Dilatò gli occhi, li sbarrò, mi poteva ormai parlare soltanto con quelli.
Con uno sforzo contrastò anche la stretta dei denti, spingendo in fuori la penna con la lingua mi offriva anche quella, come poteva.
Glielo scrivo ai tuoi, che stavi facendo Natale con loro, vicino al pezzo.
Sta’ sicuro , dissi.
Non vedeva più, ma sorrise un poco, un attimo, lo vidi io. Venivano avanti intanto altri due, nella neve, con la barella.
Tutto intorno, come vetro, i trenta sotto zero; e cassette vuote di munizioni sparate per tutto il giorno: i russi avevano santificato il Natale venendo all’attacco per sei o sette volte. Sopra, il cielo grigio sporco, un gonfio tetto di nubi senza orizzonte.
Ancora un’ora di luce, poi sarebbe calata la notte a mordere ancora di più i poveri cristi che se ne stavano lividi, già rannicchiati a offrire minore esposizione al gelo.
Avvicinandomi alla piazzuola del primo pezzo, che doveva poi saltare in aria due giorni dopo, vidi un artigliere alpino solitario seduto su una cassetta che aveva trascinata dinnanzi allo scudo del cannone per ripararsi un poco dal vento; accovacciato, s’era messo sulle cosce a guisa di tavolino un pezzo di cartone catramato su cui teneva fermo col guantone un foglietto; aveva in bocca, ficcata quasi per intero, una penna stilografica e guardava trasognato e immobile le nubi dalla parte del Don.
Udì, però, il crocchiare della neve sotto i miei passi, si rigirò, poggiò anche l’altra mano sul foglietto, mi sorrise; imbacuccato com’egli era, il sorriso spuntava appena dal viluppo del passamontagna calato sul mento e dalla sciarpa di lana che incorniciava il viso, attorta al collo e girata sul capo a salvare dal vento il cappello alpino.
Fatica, a scrivere , dissi.
Mi sorrise ancora, a denti stretti per reggere la stilografica; poi la sfilò dalla bocca per parlare.
Scarogna nera , brontolò. Ogni quattro parole si gela l’inchiostro, mi tocca sgelarlo in bocca. Mezz’ora per scrivere cinque righe. Se dura così, finisco la lettera a Pasqua .
Un caporale si affacciò dalla balka, lo chiamò, cominciava il suo turno di guardia. L’artigliere si alzò dalla cassetta, si sfilò un guanto, scostò il bordo del cappotto, mise la lettera nella tasca della giubba.
Anche a Natale, ostrega… , mi disse ammiccando.
… Notte, sior tenente . Raccolse il suo cartone catramato, si avviò.
Ci si vedeva ancora un poco, mezz’ora dopo i russi avevano ripreso a tirare coi mortai, quando dovetti buttarmi fuori dalla tana ufficiali perché mi avvertirono che c’era un ferito all’ultimo posto di vedetta, verso la valletta del fiume Kalitwa.
Corsi. Lui era steso sulla neve, prima ancora di inginocchiarmi gli tolsi il fucile di tra le gambe perché certamente aveva il colpo in canna senza sicura, mentre un artigliere tentava di sfilargli dalla bocca la penna stilografica e lui la teneva dura tra i denti serrati perché non capiva, aveva già cominciato a morire.
Non la molla , disse l’artigliere tirando, concitato.
Può soffocarsi .
Lascia stare , dissi.
Certo che non stava bene il fare la guardia con una stilografica in bocca, ma lui poveretto la teneva calda per subito dopo, appena sarebbe smontato, e poter scrivere; intanto moriva, e in fretta anche, notte sior tenente.
Ma aprì gli occhi e mi guardò, mi sorrise stiracchiato (e quello sguardo e quel sorriso furono il meglio del mio Natale ’42), si sforzò di alzare la testa dalla neve e con lo sguardo puntava verso la sua giacca, tirava il mio sguardo verso il posto della tasca sotto il cappotto. Capii subito, per fortuna. Infilai la mano, trassi la lettera, gliela mostrai portandogliela a un palmo dagli occhi, già stentava a vedere.
La finisco io, subito, sta’ sicuro, la imposto stasera dissi .
Dilatò gli occhi, li sbarrò, mi poteva ormai parlare soltanto con quelli.
Con uno sforzo contrastò anche la stretta dei denti, spingendo in fuori la penna con la lingua mi offriva anche quella, come poteva.
Glielo scrivo ai tuoi, che stavi facendo Natale con loro, vicino al pezzo.
Sta’ sicuro , dissi.
Non vedeva più, ma sorrise un poco, un attimo, lo vidi io. Venivano avanti intanto altri due, nella neve, con la barella.
di Giulio Bedeschi