Le crode dei Da Col

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    E poi ci sono le Dolomiti. Aguzzi campanili che nascono da pendii boschivi fitti, pennellati dalle mille tonalità di colori che segnano il succedere delle stagioni. Dolcezze di boschi che precedono inaspettati campanili di roccia fredda, aguzza. Ma non inesplorata. È qui che durante la guerra i nostri alpini avevano dimora, tra difficoltà impensabili. Costantemente minacciati da freddo e schioppettate nemiche. Eppure proprio tra queste guglie frastagliate si compirono imprese leggendarie. E furono tante, tantissime considerando i mezzi di allora, gli scarsi rifornimenti, la neve che l’inverno rivestiva ogni cosa. Sui torrioni ciclopici di Croda Rossa e Cima Undici nell’inverno del 1915 e nella primavera del ’16, un brulicare di uomini.

     

    Nel mezzo, il passo della Sentinella, un balcone in cresta. Punto strategico per gli italiani e per gli austriaci. Dopo lunghe ricognizioni in notturna, spesso scalzi per evitare anche il rumore più leggero, dopo lunghi appostamenti in parete, a primavera inoltrata un manipolo di alpini partì alla conquista. Erano i ‘Mascabroni’ “che nel gergo di Cima Undici voleva dire gente rude, ardita, noncurante dei disagi… È un nome che io davo a quei soldati che durante lo svolgimento della difficile impresa si dimostrarono i più arditi, i più tenaci nell’affrontare le difficoltà, pieni di fede nel successo, un po’ brontoloni, ma in definitiva sempre di buon umore e sostanzialmente molto disciplinati; gente tutto cuore e tutta sostanza; poca forma, che molto spesso è ipocrisia”. Eccoli descritti nelle parole del loro capitano Giovanni Sala. Fedele Da Col era uno di loro. Aiutante di battaglia nel 13° Gruppo Alpini, 67ª compagnia, battaglione Cadore, 7° reggimento Alpini.

    Uno dei conquistatori del passo della Sentinella. Era il 16 aprile 1916. Ancora oggi una forcella porta il suo nome. Lo stesso di suo figlio che non conobbe mai: morì tre mesi prima della sua nascita. Stessa sorte toccò alla moglie poco tempo dopo. Si ammalarono di tubercolosi anche i figli: erano cinque e rimasero due. Fedele e Ferruccio. Fedele venne affidato alla zia Anita che se ne prese amorevolmente cura. Vissero sempre alle porte di Milano. “Di soldini non ce n’erano. L’estate si ritornava ad Auronzo e ogni giorno c’era un lavoretto da fare. I pascoli, la legna, il fieno mi tenevano occupato. Ma fu allora che cominciai ad approcciarmi alle alte vette. E fui subito attratto dalla roccia, dall’arrampicata libera. La sola disciplina, per me, capace di regalare sensazioni uniche”. Si stabilì in maniera definitiva a Sesto San Giovanni, e quando iniziò a lavorare e mise su famiglia, la montagna restò sempre e comunque protagonista nella sua vita. “La domenica mattina col treno delle 5 fino a Lecco e poi in pullman o a piedi. La Grigna era lì ad aspettarmi“.

    Sono le montagne di Milano, le palestre di dolomia più amate dai cittadini che bramano il fine settimana per una nuova ascesa. Chiacchierando con Fedele Da Col si ha la netta sensazione di trovarsi davanti a un montanaro di spirito e di origini. Quei montanari di una volta, dalla stretta di mano garbata eppure vigorosa. Il fisico asciutto. Gli occhi luminosi impregnati di una serenità rara che stupisce, ma che si comprende appieno ascoltando le sue parole. Una eredità tramandatagli dal padre, uomo e soldato forte, energico e combattivo. Di lui restano due fotografie e una copia del Foglio matricolare oltre alle splendide descrizioni di una penna essenziale eppure attenta come quella del capitano Sala. E proprio spinto dalla lettura di queste pagine, Fedele tentò di trovare i soldati che combatterono con suo padre. Stefano Olivotto da Bressanone fu colui che con maggior enfasi e precisione raccontò delle imprese di Da Col in guerra. Della sua caparbietà.

    Della sua straordinaria forza fisica. Poi rintracciò Adriano Passuello che seppe rispondergli solo: “Tasi, tasi, tasi…”. Così iniziò e finì il suo racconto di guerra. Di quella guerra d’aquile, troppo aspra da rivelare. Passarono gli anni e Fedele continuò a praticare la montagna, condividendone gioie e passioni con la sua Luisa e con i figli. E oggi anche con i nipoti. Sempre con lo stesso rispetto verso una natura che non si può dominare, ma solo conoscere. A volte severa, come quella volta quando…“ Io e mio figlio Mauro, alpino anche lui, provammo a salire tra quelle crode così insidiose dove passò il Vecchio”. E mentre racconta della tentata e mai riuscita ascesa alla Forcella Da Col, Fedele abbassando lo sguardo, confessa: “Credo siano stati i ‘veci’ a non volere che io arrivassi lassù.

    Forse perché lassù c’è tutta la loro sofferenza, tutto il loro sacrificio. E il ricordo dei compagni morti”. A una spontanea e istintiva commozione segue un senso di gioia consolatoria. Immagino il vecio Da Col che guarda figlio e nipote incrodati per raggiungere una quota che, seppur significativa, riveste una importanza minuscola. Perché tutto l’amore per la montagna, per le sue regole e i suoi segreti i Da Col lo hanno nel sangue. Doti che vengono da lontano e che si propagheranno ancora e ancora. Perché alpini e montagne si somigliano. E speriamo sia sempre così.

    Mariolina Cattaneo