Quella penna strapazzata

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    Ho davanti a me il numero di gennaio de L’Alpino con la bella foto, in copertina, di un soldato italiano, un alpino credo; tutto bello fuorché il mozzicone di penna strapazzata e umiliata. Che tristezza! La nostra penna o la si porta con dignità o la si lascia a casa e si fa domanda in Marina. Sappiamo come dev’essere portata e cioè decorosamente; quindi aut sic, aut non sit . O così, o niente.

    Angelo Albiero sezione di Valdagno

    Dimmi che penna porti e ti dirò che alpino sei. È dritta, verticale, corta, nera come la pece: un modello. È parallela al terreno, lunga, di colore incerto tra il grigio e marrone, con qualche cespuglio colorato e circondata da un ricco medagliere: sei un vecio’ stanco, molto stanco, per non dire altro. All’interno dei restanti novanta gradi d’inclinazione e dimensioni che vanno dai dieci agli oltre quaranta centimetri c’è tutto il resto dell’universo alpino. Le penne bianche, omologate nella misura e nell’inclinazione, non fanno storia. È la naja alpina. Tutti portano quel simbolo da cent’anni con pari dignità e lo stesso amore, anche se con stile diverso. Altro discorso per le penne sbuferate’. Sono sopravvissute a muli, AR, CL, CM, Lince, elicotteri, trune, marce, neve, pioggia, vento e gavettoni. Se il cappello è cosa sacra, la penna è il sancta sanctorum, e non si tocca.

    Pubblicato sul numero di aprile 2010 de L’Alpino.