Cent’anni fa la battaglia del Solstizio

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LA BATTAGLIA DEL PIAVE O DEL SOLSTIZIO 15 – 23 GIUGNO 1918

Cento anni fa la Battaglia del Piave determinò la sconfitta dell’esercito austro–ungarico e l’inizio del declino dell’Impero Asburgico

 

Cenni sulla situazione politico – militare ai primi mesi del 1918

Il 1917 fu l’anno più infausto della guerra per gli avvenimenti sia nazionali che internazionali che le Nazioni della Triplice Intesa dovettero affrontare.
Nonostante il successo conseguito dall’Italia sul Piave nella Battaglia di Arresto, alla fine del 1917 e nei primi mesi del 1918, la situazione politico – militare era nel complesso più favorevole agli Imperi Centrali che alle potenze dell’Intesa: in Russia, la rivoluzione di marzo rovesciò la Monarchia dello zar Nicola II e al suo posto subentrò il partito bolscevico di Vladimir Lenin e il 9 dicembre 1917 la Romania firmava l’armistizio con gli austro – tedeschi e cessava di combattere.

Quell’evento determinò di fatto l’uscita della Russia dal conflitto: il 3 marzo 1918 la Russia firmava il Trattato di pace con gli Imperi Centrali. L’uscita dal conflitto della Russia e della Romania arrecò  un danno enorme agli Stati dell’Intesa che perdettero d’un solo colpo parecchi milioni di combattenti. La sconfitta della Russia e della Romania permise agli Imperi Centrali di recuperare una notevole massa di forze e mezzi, calcolabile a un centinaio di divisioni, da impiegare in Francia e Italia.

La Germania, consapevole che il tempo ormai giocava a favore degli eserciti dell’Intesa a causa dell’entrata in guerra degli Stati Uniti d’America (ricordo che il 6 aprile 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra a fianco delle Potenze dell’Intesa) e per il dominio del mare, messo in atto da Francia e Inghilterra, concertò con l’alleato austriaco un’ultima offensiva sul fronte francese e quello italiano per risolvere definitivamente il conflitto prima che l’immenso potenziale bellico degli Stati Uniti diventasse determinante.

Considerata la momentanea superiorità di forze e di mezzi, le offensive dovevano essere effettuate entro la primavera del 1918, altrimenti in futuro le possibilità di vincere la guerra si sarebbero di molto ridotte perché la produzione bellica risultava ormai in netto calo. I preparativi per l’offensiva finale iniziarono già in pieno inverno.

Spinta da questa urgente necessità la Germania, dopo aver ricuperato tutte le forze dal fronte orientale, a partire dal 21 marzo del 1918, sferrava una serie di potenti offensive sul fronte francese per infliggere un colpo decisivo alle truppe franco – inglesi, l’ultima delle quali, l’offensiva della  Marna, svoltasi dal 15 – 19 luglio, non riuscì a operare lo sfondamento decisivo del fronte, ne riuscì a piegare la volontà di resistenza degli Alleati dell’Intesa. Dopo quattro mesi di ininterrotti asprissimi combattimenti falliva di sconfiggere sul campo di battaglia i franco – inglesi.

La poderosa Battaglia di Francia ebbe conseguenze notevoli anche in Italia. Fra il 23 marzo e l’11 aprile venivano richiamate sul fronte francese sei delle undici divisioni alleate (4 francesi e 2 inglesi) e 15 gruppi di artiglieria pesante che erano giunti in Italia nel novembre del 1917.

Per fronteggiare la potente offensiva tedesca, alla metà di aprile del 1918, l’Italia inviava in aiuto della Francia il II Corpo d’Armata (il glorioso Corpo del  Monte Vodice e del Monte Santo), una forza di oltre 32.000  uomini, al comando del generale Alberico Albricci, per fermare, a fianco dei compagni d’arme francesi, i tedeschi lanciati verso Parigi. Ben cinquemila dei nostri soldati morirono eroicamente impegnati in furibondi assalti sulla famosa “Montagna di Bligny” e contro la formidabile posizione dello “Chemin des Dames”.

Oltre al II Corpo d’Armata fu inviato in Francia un grosso contingente di lavoratori, denominato T.A.I.F. (Truppe Ausiliare Italiane in Francia), circa 60.000 uomini, nonché reparti del Genio pontieri e ferrovieri impiegati nel riattamento di ponti e ferrovie, nella sistemazioni di campi di aviazione e di strade nella zona di operazioni.

L’offensiva austro-ungarica contro l’Italia.

Sulla base di quanto concordato con l’alleato tedesco nella primavera del 1918 il Comando Supremo austriaco concentrò la maggior parte delle sue forze sul fronte italiano e si preparò a lanciare in giugno una massiccia offensiva per infliggere all’Italia una completa disfatta militare. 

Sul fronte italiano era quasi schierato l’intero esercito austriaco. L’Austria considerava questa battaglia decisiva perché sperava fermamente di arrivare alla fine della guerra con l’Italia. Come risultato di questa operazione, che ci dovrà portare fino all’Adige, io mi riprometto lo sfacelo militare dell’Italia”.

Così scriveva, nel marzo del 1918, il generale Artur Arz capo di stato maggiore dell’esercito austriaco, al maresciallo Paul von Hindenburg, capo di stato maggiore dell’esercito germanico. Sotto la guida intelligente del generale Armando Diaz, dopo la ritirata di Caporetto del 1917, l’Esercito Italiano, attraverso un gigantesco lavoro di  riordinamento organico aveva raggiunto un livello di buona efficienza operativa in grado di affrontare con piena fiducia l’offensiva avversaria. La situazione era molto cambiata rispetto al dicembre 1917. Cittadini e soldati divennero un solo esercito per scacciare il nemico dal “sacro suolo”.

In seguito alla vasta e capillare opera di ricostruzione dell’esercito le armate salirono a sette, vennero potenziati i reparti specializzati del genio  telegrafisti e teleferisti. Anche le unità di artiglieria incrementarono di molto raggiungendo quasi 7.000 bocche da fuoco più moderne ed efficienti. L’aviazione fu potenziata: il numero di velivoli raggiunse la cifra notevole per quei tempi di 1758 e il parco automezzi salì a 31.000 unità.

Furono prese molte iniziative per elevare il morale e il benessere materiale del soldato: vennero migliorate le condizioni di vita nelle trincee,  inoltre si largheggiò nella concessione di licenze brevi e agricole, il rancio fu più curato e meglio distribuito, a tutti i soldati fu stipulata una polizza assicurativa gratuita sulla vita allo scopo di dare alle famiglie un primo sostentamento,  si diede impulso alla propaganda mediante la distribuzione di “giornali di trincea” (La Tradotta, Il Montello, La Giberna, La Ghirba), furono istituiti spacci e altre forme di ristoro e di svago, dando segni concreti di un deciso cambiamento di mentalità nella condotta della guerra.

La propaganda venne effettuata anche sulle truppe nemiche con lanci aerei di volantini ed opuscoli. Si riaccese l’entusiasmo, nei soldati crebbe la coscienza del proprio valore di cittadini e di combattenti.

Nacque così lo spirito di rivincita che aveva già dato prova di tenacia  e senso dell’onore delle nostre truppe sulle rive del Piave, sugli Altipiani   e sul Grappa nel novembre – dicembre 1917.

Furono costituiti dei Reparti Speciali, gli “Arditi”, formati da elementi sceltissimi a cui affidare i compiti più rischiosi.

Sul Monte Grappa, punto di saldatura fra il settore montano dell’Altipiano di Asiago e la pianura, utilizzando la famosa “Strada Cadorna”, costruita nel 1916 e lunga 26 chilometri, venne potenziata la difesa con postazioni e impianti tecnici e logistici.

Sulla Cima del Grappa, alta 1776 metri,  fu costruita la famosa galleria “Vittorio Emanuele III”, un’opera di fortificazione militare grandiosa costituita da un braccio principale e numerosi bracci laterali per uno sviluppo totale di 5 chilometri interamente scavata nella roccia.

All’interno la galleria ospitava 72 cannoni di piccolo e medio calibro, 70 postazioni di mitragliatrici, osservatori, centrali telefoniche, proiettori, gruppi elettrogeni, ventilatori, serbatoi d’acqua, depositi di viveri e munizioni, posti medicazione, ricoveri idonei di consentire di vivere e combattere per lungo tempo a circa 15.000 uomini  All’esterno era protetta da più serie di reticolati.

La costruzione iniziò nel novembre 1917 ad opera del genio minatori al comando del capitano ing. Nicolò Gavotti che riuscì in breve tempo a trasformare una modesta organizzazione in una robusta e complessa sistemazione difensiva capace di far fronte e arrestare l’offensiva nemica.

Ricordo che il Sacrario Militare del Monte Grappa contiene i resti di 22950 Caduti di cui 10295 soldati austro – ungarici. Nel Sacrario è sepolto il generale Gaetano Giardino, che comandò l’Armata del Grappa portandola alla vittoria finale.

L’offensiva venne preparata e organizzata dall’Esercito austro – ungarico in ogni particolare; era animata da un elevato spirito aggressivo e dall’odio tradizionale che avevano verso gli italiani al punto da suscitare nei comandanti  e soldati un’assoluta fiducia di  pieno successo.

L’Austria si preparò alla battaglia con l’animo di fare l’ “ultimo sforzo” per costringere l’Italia alla resa. L’offensiva, se vittoriosa, avrebbe dato anche la possibilità all’esercito austro – ungarico di poter mettere le mani sulle ingenti scorte conservate nei magazzini italiani per alimentare le loro truppe ormai a corto di viveri.

Sullo scacchiere italiano, il Comando austriaco disponeva di 60 divisioni (per un totale di 1.100.00 soldati), suddivise in due gruppi di armate: il “Gruppo d’Armate del Tirolo” al comando del feldmaresciallo Franz  Conrad, con le armate 10a e 11a schierate lungo la linea dello Stelvio – Trentino – Monte Grappa (con limite di settore a Fener del Piave) e il “Gruppo d’Armate del Piave”, schierate da Fener (eslusa) al mare Adriatico, al comando del feldmaresciallo Boroević con la 6a Armata e la 5a (o Armata dell’ Isonzo).

Il piano operativo del Comando austro – ungarico prevedeva un attacco iniziale diversivo, il 13 giugno, la cosiddetta operazione “Lawine” (Valanga) sul Passo del Tonale e una manovra a tenaglia con uno sforzo esercitato dal “Gruppo d’Armate del Tirolo” a cavallo dell’Altopiano di Asiago – Val Brenta – Monte Grappa, tendente a sfondare il fronte montano e raggiungere Vicenza (Operazione Radetzky), per prendere alle spalle le nostre armate schierate sul Piave, mentre la branca meridionale della tenaglia, (denominata Operazione Albrecht) costituita dal “Gruppo di Armate Boroević”, aveva il compito di sfondare le linee italiane sul Montello e sul basso Piave e  conquistare Treviso e Venezia.           

L’ambizioso piano offensivo del Comando Supremo austro – ungarico, se condotto lungo un’unica direttrice strategica, avrebbe forse potuto consentire all’esercito avversario di raggiungere la pianura di Vicenza. L’antagonismo esistente fra il Conrad e il Boroević, due prestigiosi comandanti, ciascuno dei quali era convinto che il proprio piano di attacco potesse conseguire pieno successo, trasformò il piano in due offensive condotte con forze quasi equivalenti su una fronte di ben 120 chilometri che, data la sua estensione, non consentì di creare un unico baricentro capace di determinare un’ effettiva superiorità di uomini e di mezzi.

A causa del contrasto fra i due condottieri veniva ignorato un principio fondamentale quello cioè della gravitazione delle forze da concentrare sul  tratto più debole del dispositivo nemico, come avvenne nell’ottobre del 1917 sull’alto Isonzo a Plezzo e Tolmino.

In attesa dell’offensiva nemica le forze italiane contrapposte alle quattro armate austro – ungariche ammontavano a 56 Divisioni (per un totale di 950.000 soldati) di cui 2 francesi – 3 britanniche e 1 cecoslovacca, schierate lungo la linea di difesa Stelvio – Lago di Garda – Monte Baldo – Pasubio – Val d’Astico – Altopiano di Asiago – Monte Grappa – Montello – riva destra del Piave sino al mare Adriatico in corrispondenza di Cortellazzo.

Delle 56 divisioni, 37 erano schierate in prima linea e ben 19 erano tenute in riserva alle dipendenze del Comando Supremo.  Inoltre una imponente massa di fuoco, quasi 7000 pezzi di artiglieria, era pronta a fermare l’impeto nemico.

Il concetto operativo del Comando Supremo Italiano aveva previsto la “resistenza in posto” nella zona montana mentre in pianura “difesa in profondità”  chiamata anche “difesa elastica”, allo scopo  di contrastare e incapsulare le infiltrazioni nemiche, di logorare l’avversario e passare, poi, alla controffensiva impiegando la potente riserva generale costituita dalla 9a Armata, al comando del generale Paolo Morrone, stanziata fra Vicenza, Padova e Treviso.

Sul Tonale l’operazione “Lawine” iniziata il 13 giugno  si trasformò in un clamoroso insuccesso: i nostri reparti alpini, appoggiati da un efficace fuoco di contropreparazione e di sbarramento, stroncarono sin dall’inizio l’attacco austriaco. 

Alle tre di notte del 15 giugno, si scatenò un violento fuoco di preparazione dell’artiglieria dall’Altopiano di Asiago sino al mare, migliaia di granate, di shrapnels, di gas asfissianti e lacrimogeni, dirette sulla prima linea e sulle difese retrostanti. Per il Comando italiano l’offensiva non fu una sorpresa, poiché già nelle settimane precedenti ci furono ricognizioni aeree, intercettazioni telefoniche, nostri colpi di mano, il nostro servizio informazioni aveva raccolto notizie precise sull’offensiva e sulla data e l’ora  dell’attacco dagli interrogatori di prigionieri e disertori soprattutto cechi ai quali era noto che una legione formata da loro compatrioti combatteva a fianco degli italiani.

Questa volta l’artiglieria italiana, ricordando l’amara sconfitta di Caporetto, prese le necessarie contromisure e aprì un formidabile e preciso fuoco di contropreparazione, anticipando in alcuni settori del fronte il fuoco nemico, provocando gravissime perdite nel dispositivo di attacco avversario, ai numerosi pontoni di barche montati sul Piave, sui centri di comando e sulle retrovie.

Sul fronte dell’Altopiano di Asiago gli italiani schieravano la 6a Armata, rinforzata da unità inglesi e francesi per un complesso di 7 Divisioni contro 9 Divisioni austriache. Verso le nove del mattino si scatenò l’attacco nemico contro la sinistra e il centro del nostro schieramento, difeso da unità inglesi e francesi, sino a intaccare in qualche punto le nostre linee difensive, ma nel pomeriggio nostri vigorosi contrattacchi  ristabilivano la situazione iniziale.

Nel settore a destra, difeso da reparti italiani, la penetrazione fu più profonda. Alcune posizioni, pagando un prezzo altissimo furono occupate dagli austriaci: Cima Valbella, Col del Rosso, Col d’Echele, Cima Echar e il ridotto di Costalunga, ma già verso sera furono costretti a retrocedere dalle posizioni conquistate da risoluti contrattacchi ad esclusione dei cosiddetti “Tre Monti” (Cima Valbella, Col del Rosso e Col d’Echele) che rimasero in mano agli austriaci.

In Val Brenta, il XX Corpo d’Armata, schierato a sbarramento della Val Brenta, conservò intatte la proprie  posizioni. Sul Monte Grappa, pilastro della resistenza fra Brenta e Piave, difeso dalla 4a Armata al comando del generale Gaetano Giardino, la lotta ebbe carattere di particolare violenza con furiosi corpo a corpo: l’ala sinistra del nostro schieramento sotto la vigorosa pressione austriaca dovette cedere al nemico Monte Pertica, Col delle Farine, Monte Coston, Col del Miglio, Col d’Anna, Col Moschin, Col Fenilon, Col Fagheron e Col Raniero capisaldi della ultima linea di  resistenza sul settore nord-est del Grappa.

La situazione era gravissima e poteva avere sviluppi anche molto tragici, ma la nostra resistenza, nonostante le gravi perdite subite,  non si attenuava e il nemico veniva prima decisamente fermato e dopo respinto.

Alcune pattuglie nemiche, approfittando di una fitta nebbia, si infiltrarono nelle linee italiane sino al Ponte San Lorenzo lungo la strada Cadorna (al chilometro 20) ma venivano immediatamente fermate da un tempestivo fuoco di sbarramento ed eliminate da decisi contrassalti. Al centro  in corrispondenza del saliente avanzato, dopo strenua resistenza, cadevano in mano nemica parte dei Monti Solaroli. 

Nello stesso pomeriggio del 15 giugno il leggendario IX Reparto d’assalto del maggiore Giovanni Messe, rinforzato da reparti della Brigata Basilicata, riprendeva Col Raniero, Col Fagheron e Col Fenilon con vigorosi contrattacchi appoggiati da un potente fuoco di artiglieria, e il mattino successivo, all’alba, gli Arditi del maggiore Messe, ricacciavano gli austriaci anche dal Col Moschin, perno orientale dello sbarramento del Brenta e dei capisaldi antistanti Cima Grappa, catturando 250 prigionieri e impossessandosi di 25 mitragliatrici nemiche.

Giovanni Messe, nella sua carriera militare partecipò a diciannove campagne di guerra ed è stato l’unico italiano che partito da casa da soldato semplice chiuse la carriera militare con il grado di maresciallo d’Italia. Ferito tre volte, fu insignito di quattordici decorazioni al valore militare.

Al centro, dopo una violenta preparazione di fuoco, venivano rioccupate le posizioni perdute ad eccezione del crinale dei Solaroli. Dopo due giorni di aspri sanguinosi combattimenti la 4a Armata,  aveva vinto la sua battaglia difensiva grazie  alla armoniosa cooperazione fra le varie armi: il nemico era stato ovunque arginato; l’impeto dell’attacco era stato decisamente frenato sino a determinare il totale esaurimento.

Anche il saliente del Monte Tomba – Monfenera fu più volte attaccato dalle unità austriache ma tutti gli assalti si infransero davanti alla solida difesa delle nostre truppe. In questa critica situazione le nostre artiglierie contribuirono in maniera decisiva per arrestare l’irruenza dell’avanzata nemica.

Sul Montello, difeso dall’8aArmata e sul basso Piave, difeso dalla 3a Armata, iniziava l’operazione “Albrecht” con obiettivo Treviso. Reparti d’assalto ungheresi della 6a Armata, favoriti dalla superficialità del generale Pennella che non capì la grave situazione del momento e coperti da cortine fumogene, con l’ausilio di barconi mettevano piede sulla riva destra del Piave.

In quel tratto di fronte le Divisioni del generale Goiginger, facendo uso di gas lacrimogeni e nebbiogeni, occupavano il paese di Nervesa e riuscivano a penetrare in profondità per oltre cinque chilometri sino a Case De Faveri a nord e a sud a Giavera dove correva la terza linea difensiva. 

Nei giorni 16 -17 giugno sul Montello la battaglia si protrasse aspra e sanguinosa con numerosi nostri contrattacchi di violenza inaudita che prima rallentarono e poi arrestarono la pericolosa penetrazione nemica.

Il giorno 18 il Comando Supremo lanciava la controffensiva per riconquistare il terreno perduto sul Montello, il tratto di fronte più sensibile sotto il profilo strategico, al fine di ricacciare l’avversario sulla sinistra del Piave. L’azione affidata all’8a Armata, rinforzata dalle riserve del Comando Supremo e accompagnata da un formidabile fuoco di artiglieria, contro un nemico tenace e combattivo, dopo tre giorni di lotta sanguinosa, costringeva l’avversario a ripiegare sulle posizioni di partenza. Con il fiume in piena ed i ponti di barche colpiti dall’artiglieria, uomini, cavalli, artiglierie e materiali venivano travolti dalle impetuose acque del Piave.

Sul Basso Piave, le unità della 5a Armata del generale Boroević, nonostante la piena del fiume, lo attraversarono  costituendo due teste di ponte a Fagarè in corrispondenza della strada Ponte di Piave – Treviso  e a Musile, all’altezza della ferrovia San Donà – Mestre dove la testa di ponte raggiunse la periferia di Meolo.

In questo settore il nemico impiegando le sue riserve riusciva a congiungere le due teste di ponte senza riuscire a spezzare la fronte della 3a Armata. Falliva così l’offensiva per conquistare Treviso e Venezia.

Dopo questi successi iniziali, gli italiani prendevano energicamente l’iniziativa, e a partire dal 19 giugno, impiegando le numerose riserve strategiche a disposizione del Comando Supremo, contrattaccarono vigorosamente gli austriaci ricacciandoli sulle posizioni di partenza infliggendo loro gravissime perdite.

Nel basso Piave combatterono anche i Battaglioni dei fucilieri di marina, del Reggimento “San Marco”, appoggiati da artiglierie navali di grosso calibro caricate su chiatte schierate lungo il fiume Sile.

Al successo contribuì anche la nostra aviazione da caccia soprattutto nelle centinaia azioni di appoggio alle nostre truppe, di bombardamento e di interdizione.  In una di queste pericolose azioni, il 19 giugno, sul Montello, nei pressi di Busa delle Rane, perdeva la vita l’asso degli assi della nostra aviazione da caccia il maggiore di cavalleria Francesco Baracca, mentre col suo SPAD,  mitragliava a bassa quota la fanteria del generale Goiginger.

Di fronte agli scarsi successi del Gruppo Conrad sull’Altopiano di Asiago, alla tenace resistenza incontrata dagli austriaci sul Monte Grappa e sul Montello e nella manifesta impossibilità di sfondare nel basso Piave, e bersagliati dagli aerei e dal fuoco implacabile delle nostre artiglierie concentrato sui pontoni, avendo esaurita ogni capacità offensiva, la sera tra il 22 e il 23 giugno il Comando Supremo austro – ungarico, per evitare altro inutile spargimento di sangue, dava l’ordine alle due Armate di ripiegare sulla sinistra del Piave.

Per la Monarchia Asburgica l’obiettivo strategico era fallito.  L’esercito austro – ungarico usciva dalla lotta profondamente scosso nel morale ed indebolito. Il gruppo di armate che presero parte all’offensiva accusò la perdita di 142.000 uomini fra morti, feriti e dispersi. Rimasero nelle nostre mani 524 ufficiali e 23.951 uomini di truppa prigionieri dei quali migliaia di feriti e ammalati, 70 cannoni, 75 bombarde, 1234 mitragliatrici, 37.000 fucili, 119 velivoli e 9 palloni frenanti abbattuti.

Gli italiani e gli alleati inglesi – francesi ebbero 6111 caduti, 27.661 feriti, 51.856 fra prigionieri e dispersi.

La Battaglia del Piave fu una grande vittoria italiana, la prima conseguita nel 1918 da un esercito dell’Intesa sugli eserciti degli Imperi Centrali e segnò il principio della definitiva riscossa delle Potenze dell’Intesa.

Innumerevoli furono gli episodi di cosciente sacrificio e di luminoso eroismo. Le 640 medaglie al valore militare concesse in quella battaglia, di cui 486 a soldati, ne sono la luminosa testimonianza.

Il Comando Supremo, nel citare all’ordine del giorno l’eroico comportamento dell’Armata del Grappa, così diceva nel Bollettino di guerra del 18 giugno: “ciascun soldato, difendendo il Grappa, sentì che ogni palmo del monte era sacro alla Patria”.

Alla vittoria parteciparono anche i ragazzi del ’99 che sul Piave, fiume sacro alla Patria, crearono un invalicabile baluardo per la salvezza e la risurrezione d’Italia. Gettati nelle infuocate trincee si comportarono  subito come veterani. Lontano dalle loro famiglie, affrontarono i pesanti disagi della trincea, del freddo, del sonno, della pioggia, del dolore per i compagni caduti con coraggio e determinazione. Il loro impegno fu fondamentale, da loro iniziò la riscossa dopo la disfatta di Caporetto per ridare slancio ed entusiasmo ai soldati veterani disanimati e radicati sulle roventi trincee del Piave, del Montello e del Monte Grappa. Il loro impegno nella Prima Guerra Mondiale rimane nella leggenda.

Furono 265.000 chiamati a resistere sulle sponde del Piave durante tre battaglie decisive: la Battaglia di Arresto nel novembre 1917, quella del  Solstizio a metà giugno 1918 e l’ultima Battaglia vittoriosa. A causa dell’ insuccesso subito sull’Altopiano di Asiago, l’11 luglio il feldmaresciallo Franz Conrad von Hötzendorf venne esonerato dal Comando del “Gruppo di Armate Tirolo” e sostituito dall’Arciduca Giuseppe d’Asburgo.

Da quella bruciante sconfitta il prestigioso esercito dell’Austria – Ungheria iniziò il suo declino e accelerò di fatto il processo di disgregazione del potente Impero  Asburgico. Le conseguenze della pesante sconfitta si ripercossero anche sull’alleato tedesco come ammise anche lo stesso capo        di stato maggiore tedesco, il generale Hindenburg: “L’offensiva austro – ungarica in Italia, dopo i successi iniziali molto promettenti, era fallita…. La sfortuna del nostro alleato sta diventando una disgrazia anche per noi”.

Quel cruento scontro sul Piave ebbe nel campo nemico importanti ripercussioni politiche. Per la fallita offensiva e per le perdite subite il Paese cadde  in un profondo sconforto. La situazione dell’ordine pubblico si deteriorò pericolosamente. A causa della crisi alimentare le popolazioni civili iniziarono a scioperare e scendere in piazza. Al parlamento ungherese vennero indirizzati violenti attacchi contro il Governo e contro l’Imperatore.

Il 27 giugno il Presidente del Consiglio dei Ministri onorevole Orlando inviava al generale Caviglia il seguente telegramma: “Esprimo a V.E. e alle truppe che V.E. comanda tutta l’ammirazione e la gratitudine del Governo e del Paese per le eroiche gesta da esse compiute che hanno dato nuova vittoria alla Patria e hanno aggiunto nuova gloria all’Esercito d’Italia”. In campo alleato, da Londra e Parigi, arrivarono commenti entusiastici indirizzati al Comando Supremo Italiano e ai soldati italiani sia dai Capi di governo che dai Comandanti Alleati.

Luigi Barzini, corrispondente del “Corriere della Sera” scrisse che “anche il nemico si è battuto con disperata energia, lo provano i mucchi di cadaveri a pochi passi dalle nostre mitragliatrici, lo provano i numerosi corpo a corpo, lo provano le altissime perdite avversarie, che in certe unità arrivano al 75 per cento”.

La Relazione dello Stato Maggiore austro – ungarico al termine della battaglia affermò: “tutti i reggimenti durante l’attacco, quasi senza eccezione, dettero il meglio di loro stessi”. Erano Soldati che sulle  opposte trincee combatterono con coraggio, con altissimo senso del dovere e dell’onore militare per la loro Patria.

Sull’Altopiano di Asiago, alla fine di giugno e ai primi di luglio, nostre truppe, con alcune azioni offensive, riconquistavano i “Tre Monti”, mentre  sul Monte Grappa ritornava nelle nostre mani il Col del Miglio.

Dopo il fallimento dell’offensiva, il 14 agosto, l’Imperatore Carlo I con il suo ministro degli esteri Burian ed il capo di stato maggiore von Arz si recò a Spa in Belgio, sede del Comando Supremo tedesco, dall’Imperatore Guglielmo II per proporre ad iniziare una trattativa di pace con l’Italia.  L’iniziativa non fu tuttavia accolta da Guglielmo II, il quale decise di attendere un momento militarmente migliore.

La fulgida vittoria conseguita fu non solo opera degli eroici Soldati dell’Esercito Italiano ma di tutto il Paese che diede un cosciente e valido sostegno morale e materiale ai nostri Soldati impegnati a difendere il sacro suolo della Patria.

Dopo il successo del giugno, il generale Diaz preparò l’esercito per l’offensiva finale, riservandosi di fronte agli alleati, il momento e la direttrice di attacco, per eliminare in modo irreversibile le forze nemiche sulla fronte italiana  e concorrere alla vittoria della Triplice Intesa.

L’agognata pace fra i due popoli che finalmente poneva fine a una tragedia immane  con  milioni di lutti, sofferenze inaudite e di sacrifici disumani, dovette attendere ancora quattro lunghi mesi.

generale B. Tullio Vidulich