La Russia di don Gastone

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    “Don Croda” cammina spedito dall’alto delle creste delle sue novantanove primavere. Lo chiamano così per via della sua invidiabile passione per le vette dolomitiche. Disinvolto non solo nell’incedere, che è spedito a dispetto di un bastone che dovrebbe fare da supporto a gambe stanche e che invece usa come una bacchetta d’orchestra per dirigere il racconto che ti srotola davanti. Cammina spedito soprattutto nei ricordi. Intellettualmente brillante, amabilmente ironico, cordialmente disponibile.

     

    Del resto il segreto c’è, per spiegare questa alchimia di carattere. Ed è il fatto che don Gastone Barecchia, come racconta parlando di se stesso, è “figlio di teroni”. Terone con una erre sola, da buon veneto, qual è e qual si sente nell’animo. In realtà nelle sue vene scorre sangue campano, quello che unisce simpatia, arguzia, cordialità e quel giusto distacco dalle pene della vita, da stemperare a tarallucci e un fiasco di vino. Terone di Caserta, per l’esattezza, dove suo padre era a servizio della Guardia Regia, prima del trasferimento a Mestre, quando lui era ancora nel grembo della madre.

    Poi lo sguardo di bambino che si apre sulla Laguna a sfiorare coll’animo, prima ancora che con gli occhi, il senso del bello e dell’Infinito. Ed è nella sua casa, a due passi dal Canale della Giudecca, dove giganteschi mostri da crociera passano irridenti grattando le fragili fondamenta della città, che ci riceve per portarci alle sue vicende passate. Sobria essenzialità, tanti libri a portata di mano, quelli che si consultano senza diventare mai oggetti di arredo, e soprattutto tante tracce alpine, a cominciare dal cappello, custodito come una cassaforte di memorie.

    Una storia quella alpina di don Barecchia, che comincia nel ’42, quando l’allora Patriarca di Venezia chiede la disponibilità ai giovani preti di andare tra i soldati mandati in guerra. E lui, giovane ventottenne, che risponde senza esitazione: presente! Inizia così l’avventura militare di questo alpino “pansa longa” (pancia lunga, per chi non fosse avvezzo alla parlata veneta). Si definisce proprio così, per indicare con orgoglio la sua appartenenza all’artiglieria da montagna, 2° artiglieria Alpina Tridentina, dove venivano mandati quelli col fisico un po’ spilungone, rispetto agli alpini, fermi alla taglia X o XL.

    Prima destinazione Venaria Reale, a Torino. Il clima di guerra non consente particolari euforie, ma sdrammatizzare è d’obbligo, perfino davanti al Crocifisso: “Ti hanno inchiodato sul legno, ma non ti hanno fatto artigliere da montagna” dicono a quel povero Cristo appeso al muro. Parole sorridenti, ma che si riveleranno profetiche di lì a pochi mesi, quando la steppa russa si trasformerà in un calvario, destinazione paradiso. Don Gastone ricorda l’arrivo a fine estate. Ricorda soprattutto quell’incedere senza orizzonti. Cammina, cammina scriverà Bepi De Marzi in una struggente rievocazione sulle note. Quell’incedere che sembrava senza meta fu anche la prima impressione degli alpini. “Questa guerra la facciamo coi piedi” sussurravano con la testa bassa. Metafora profetica per raccontare tutta la fragilità di una spedizione il cui esito si sarebbe visto di lì a poco. Poi l’arrivo a Rossosch e l’inizio della missione tra i soldati.

    Dall’otto dicembre del ’42 ai primi di gennaio del ’43 il Natale tra gli alpini. Un continuo va e vieni tra le varie batterie, perché anche quei momenti avessero i colori della festa e della pietà cristiana. Don Gastone ricorda ancora un certo Teresio Olivelli, oggi servo di Dio, del quale è in corso la causa di beatificazione. Aveva fatto 30 km. con gli sci per venire ad ascoltare una Messa per sua madre. Si vedeva subito che era un ragazzo fuori dal comune. Sarebbe morto in campo di concentramento, massacrato a calci e pugni per aver soccorso un ferito. Ricordi che si accavallano, quasi sgomitando per farsi largo l’uno sull’altro. Come quello di don Carlo, il don Gnocchi santo, col quale stabilisce un rapporto di grande cordialità, che continuerà anche dopo la guerra quando il Beato porta a Venezia i suoi mutilatini perché respirino le arie buone del mare.

    O come quello dell’ufficiale alpino, preso da un momento di disperazione. “Era un giovane tenente – ci racconta. Entrai e lo trovai che stava portando la pistola alla tempia per spararsi. Gli diedi un colpo fortissimo al polso facendo volare l’arma fuori dalla finestra. Il giorno del suo matrimonio mi ha invitato alle sue nozze. È bastato guardarsi negli occhi per capire che quello era il nostro più grande reciproco regalo”. Pensieri malinconici che vanno a insaccarsi nei terribili momenti della ritirata, dopo l’arrivo del cablogramma con cui si annunciava l’accerchiamento e si dava l’ordine di partire.

    Quello che accadrà dopo è l’epopea morale degli alpini, che in tanti ci hanno raccontato, lasciando al filosofo che è dentro ognuno di noi la stessa identica domanda: chi è l’uomo e di cosa è capace questo uomo, nel bene e nel male? Don Gastone indulge alla tenerezza ricordando la donna dell’isba. “Entrammo nella sua poverissima casa dove viveva con i figli più piccoli. Ci mostrò, appese al muro, le foto del marito e dei due figli più grandi, morti in guerra per congelamento, questo perché la morte parla una lingua comune a tutti gli uomini. Ci diede qualche patata per sfamarci. Le portammo dentro anche un nostro alpino ferito, che all’alba non c’era più. Ma lei ci invitò a continuare spediti sulla strada del ritorno. Per quel morto ci avrebbe pensato lei”.

    La maternità, come la pietà, non hanno mai bandiere e, soprattutto, non conoscono nemici. Entrambe sono patrimonio comune dell’umanità. Chiediamo a “Pansa longa” come abbia fatto a salvarsi. “Un po’ di astuzia e poi disegni superiori”, ci risponde. Tra le astuzie servì soprattutto il consiglio di quel vecchio artigliere: “Don Gastone, con 42 sottozero, se vuoi salvare la pelle devi spalmarti le gambe e i piedi col grasso antigelo delle mitragliatrici, metterti due paia di calze e non levare mai, dico mai, le scarpe per tutto il tempo”. Mai ordine fu così puntualmente rispettato.

    Solo in Italia quei due scarponi furono liberati dai piedi, pieni di fatiche e di ferite. Come quelle rimediate prima di Nikolajewka. “Camminavo con un gruppo di alpini, quando arriva una “nespola” che ne ammazza uno. Mi chino e prendo l’Olio Santo, quando arriva una seconda “nespola”. Questa volta i morti sono sette”. Anche don Gastone è ferito. Sviene. Pezzi di granata si conficcano nelle sue gambe. Qualcuno presente ancora oggi, a perenne memoria, come un ex voto.

    Sarà una slitta a portarlo in salvo, di nuovo nella sua terra per una lunghissima convalescenza. Terminata la quale arrivano puntuali i carabinieri per gli accertamenti. “Cerchiamo don Gastone Barecchia” dicono sussiegosi. “Mi spiace non è qui. È morto in Russia” è la risposta dell’artigliere Pansa Longa.

    Bruno Fasani