Il Maestro Bepi De Marzi: …so dove nasce la voglia di cantare

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    Il dibattito sulla coralità.

    Ho incontrato Bepi De Marzi a conclusione dello stage che il Coro Amici della Montagna di Genova ha organizzato presso il Santuario della Madonna della Guardia, in ottobre. Il maestro era in ottima forma, preso dall’entusiasmo degli oltre cento partecipanti venuti anche da luoghi molto lontani. E lassù, davanti allo splendido Golfo, con la luce intermittente della Lanterna che segnava l’approssimarsi della sera, abbiamo dialogato fino a notte.

    Bepi, sei sempre convinto che il nostro canto corale sia in agonia come hai scritto ben dieci anni or sono? Lo annunciavo, certo, e ora lo confermo. Nell’ultimo disco dei miei Crodaioli, il nono, a questo proposito ho anche inserito delle provocazioni, che però dal mondo alpino sono state molto criticate. Segno che molti non hanno voluto o saputo capire.

    Potresti anche ricordarle qui, allora, queste provocazioni! Alcuni dei miei primi canti, ispirati dagli alpini o dalle guerre, li ho proposti a una sola voce, altri con l’accompagnamento della chitarra o della fisarmonica. Volevo far capire agli alpini che era tempo di tornare a cantare con naturalezza, con spontaneità. Invece, apriti cielo! Mi è stato detto perfino che ho attentato al vero canto della montagna, che ho rovinato le mie opere diventate ormai patrimonio popolare.

    Ma quali in particolare? Monte Pasubio, L’ultima notte degli alpini, Joska la rossa, Il ritorno Che non sono certo canti della montagna, anche perché il canto della montagna non esiste: è venuto da una organizzazione cittadina del primo dopoguerra, un’invenzione geniale dei fratelli Pedrotti di Trento, che insieme a Luigi Pigarelli hanno percorso le armonie realizzate nel 1919 dal musicista Vittorio Gui, allora tenente del Genio, su proposta dello scrittore alpino Piero Jahier.

    Ma come fai a essere sempre così deciso, sicuro? La mia sicurezza viene dall’amore per il canto, ma anche dalla lettura dei documenti. Si cerchi, per esempio, proprio la pubblicazione di Jahier e Gui, Canti di soldati. C’è anche Il testamento del Maresciallo, che, come viene ricordato, poteva venire adattato a qualsiasi Corpo combattente. E c’è chi insiste a chiamarlo Il testamento del capitano, impuntandosi sul testo

    Ti dispiace tornare alle provocazioni? Tu sei noto anche per questo Grazie, amico, tu che sei un alpino del mare con le montagne nel cuore; quassù è proprio tutto più facile e più sereno. Ecco, io vorrei che gli alpini tornassero a cantare, ma tutti. Che senso ha salire alla Colonna Mozza dell’Ortigara e delegare a un coro organizzato il cantare la commozione che dovrebbe essere invece la voce di tutti i presenti?Che senso ha, nelle nostre Sante Messe, in chiesa o al campo, far cantare trenta persone in divisa occasionale mentre altre mille o più, con il cappello e la penna, stanno zitte?Si sopportano omelie torrenziali e vaghe, con le filastrocche del Catechismo ormai ripetute ossessivamente, e si dimentica di avere intorno all’altare proprio gli alpini, gli uomini che si donano agli altri, che sanno veramente amare. Si dimentica che una Santa Messa dovrebbe essere l’apoteosi del canto dell’assemblea tutta, della preghiera espressa dai credenti.

    In questo stage genovese hai ricordato un fatto che ha suscitato molta impressione, che ha destato perfino incredulità tra i maestri e i coristi presenti. Ho riportato ciò che ho sentito spesso raccontare dai reduci della Russia, da Egisto Corradi, da Giulio Bedeschi, da Mario Rigoni Stern e da altri che ho avuto la fortuna di avere per amici, addirittura confidenti, che mi hanno ispirato i primi canti, che hanno sostenuto Carlo Geminiani nelle sue appassionate composizioni poetiche. Ho detto che in riva al Don mai nessuno si è pensato di cantare gli inni del regime fascista, e che nelle sere che portavano al Natale del 1942, la disperazione e la nostalgia di casa facevano intonare perfino Mira il tuo popolo o Bella Signora, Tu scendi dalle stelle

    E i canti degli alpini?E i nostri canti? Quali?Me ne puoi indicare uno di autenticamente alpino?Sono tutti adattamenti da canti popolari preesistenti. Possiamo dire tranquillamente che ci sono i canti preferiti dagli alpini, non degli alpini. Quand’ero paracadutista con la penna nera cantavo Figli di nessuno. Per questo, a Bressanone, ho rischiato una denuncia per espressioni scurrili in luogo pubblico Ma, tornando ai cori, in trincea i nostri soldati non cantavano certo a quattro voci: caso mai con un falsetto naturale in terza, battendo il ritmo col gavettino. Perciò, è quasi offensivo pensare che si mettessero in cerchio per cantare ingessati con le mani dietro la schiena.

    Ma ora si fanno i concerti. Con i tuoi Crodaioli ti ho visto entrare in palco molto informalmente, con disinvoltura, talvolta con allegria. Quando ci si propone in concerto per raccontare e far partecipare, il decoro deve essere dettato dal buon gusto e dalla misura. Sono anni che raccomando ai cori di non entrare in palco in fila per due per aspettare il direttore immobili come per una fucilazione. Sono anni che dico ai presentatori di parlare poco e di non voler imitare grottescamente i televisionisti. Il declino che annunciavo, e che confermo, è conseguente alla perduta credibilità, alla perduta poesia degli umili, alla noia che produciamo con i repertori strampalati, con l’inserimento degli inopportuni discorsi dei notabili locali, con l’interminabile scambio delle targhe e dei guidoncini È così che abbiamo perduto il nostro pubblico!

    È mia intenzione proseguire ne L’Alpino un dibattito sul canto corale e sul canto degli alpini. Potresti suggerire qualche pensiero? Ormai gli alpini sono destinati a scomparire. Gli attuali volontari sono dei professionisti che, quando avranno finito il servizio, saranno solo dei pensionati statali. E mi viene da piangere. Tra cinquant’anni resterà forse un vago ricordo del nostro orgoglio di portare la penna nera. Ho avuto la felicità di collaborare con il colonnello Tardiani nel tempo dei Concorsi dei Cori alpini alle armi. Mi ripeteva spesso una frase che non ho dimenticato: Meno sfilate a passo di tamburo e più fraternità alpina! . Se vogliamo affidare alle generazioni future i nostri valori dobbiamo trasmettere la voglia di cantare insieme, di emozionarci ai racconti della sofferenza in guerra, di difendere l’unità della Patria dalle separazioni escogitate dalla politica, di amare il Tricolore, di vivere in semplicità, di trasformare le Adunate in feste delle famiglie. Il mio sogno è di vedere sfilare gli alpini che tengono per mano le mogli, i figli, i nipoti, le morose, gli amici, magari con i costumi tradizionali delle valli, delle montagne, delle campagne rimaste.

    Ormai è notte, Bepi, e le luci di Genova sono tutte accese. Siamo qui nel Santuario di Maria, alto sulle montagne. Posso chiederti se sei credente? Certo che sono credente. E anche praticante. Ma non sono bigotto. Non dimenticare che ho sempre fatto l’organista di chiesa. Stamattina, a Messa, ho fatto intonare i Salmi nella versione poetica di padre Turoldo, dopo averli insegnati. E cantavano tutti. All’organo sedeva la dolce Silvia Derchi, figlia del maestro del Coro che ha inventato questo incontro. Sono stato educato alla fede e alla sincerità dai miei genitori: mia mamma milanese e mio padre veneto. Che mi hanno anche insegnato la libertà di pensiero. Infatti, non sopporto i partiti e i politici di carriera, come sto lontano dalle gerarchie, anche da quelle ecclesiastiche

    Cosa canti nella tua ultima composizione corale? Con una melodia in modo maggiore, dico: So dove l’erba nasconde la rugiada, so dove i grilli accordano i violini, so dove il vento si ferma quando trema, so dove nasce la voglia di cantare .

    Gian Paolo Nichele