Se l'informazione ha un virus

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    L’informazione sta poco bene. L’impressione è che anche nelle redazioni sia entrato il virus che circola pernicioso per le strade della quotidianità. È il virus dei diritti, reclamati come pretese irrinunciabili. Tanti quante sono le teste dei cittadini e capaci di mettere all’angolo la cultura dei doveri, quella che obbliga a fare qualche fermata e a misurarsi con i diritti degli altri.

    Tutto può essere detto, fatto, scritto e raccontato. L’imperativo al limite è quello di non porsi limiti. Un tempo prima di fare una cosa ci si interrogava sulla sua liceità: posso farlo?Oggi si va al dunque, scavalcando ogni principio etico: posso farlo, quindi lo faccio.

    E così, tutto diventa osceno, buttato fuori dalla scena. Dietro le quinte non c’è più margine per custodire i fatti dentro gli spazi del pudore, della privacy, della finezza, del bene comune, dell’umanità calda, che preserva i rapporti umani dall’intolleranza e dalla voracità del pettegolezzo. Tutto è buttato in piazza, nel nome del diritto a far sapere, ma anche di dire ciò che si pensa sempre e comunque, di banalizzare volgarmente i limiti fisici, psicologici e morali degli altri e dare in pasto quanto fa gola alla voracità di un pubblico che è diventato sempre più guardone e bisognoso del circo dove si aggirano i leoni e le loro prede.

    E così diventa un diritto offendere l’avversario con le peggiori calunnie, raccontare i dettagli di una notte d’amore per farne una battaglia politica, distruggere l’onorabilità di un direttore di giornale travolgendolo nei sussurri di peccati indicibili, tradire i segreti di una deposizione in tribunale, rilanciare le denunce di mafiosi, veri, sedicenti o falsi senza una verifica che si preoccupi della verità, ammorbare con le vicende di qualche transessuale come se fossimo alla frontiera di una nuova liberazione dei costumi. L’informazione sta poco bene perché per strada ha perso l’orizzonte della propria vocazione.

    Il grande giornalista Kapuscinski, scomparso qualche tempo fa, faceva una considerazione alquanto amara. Quando ho cominciato questa professione era solito ripetere la domanda di rito era: hai verificato se la notizia è vera?Oggi, più cinicamente ci si chiede quali sono le notizie che fanno vendere e come proporle perché vendano di più . Il principio della verità dei fatti sempre più spesso cede il passo a logiche mercantilistiche, dove ogni opinione si equivale creando le premesse per il fiorire di un relativismo qualunquista, incapace di indicare alcun sentiero di vita.

    Uno scenario nel quale il giornalista diventa il gatekeeper, cioè il guardiano della porta, che decide cosa far passare, come farlo percepire e quali effetti produrre sul tessuto sociale. Eppure, a dispetto dei possibili lamenti, siamo qui a dirci che comunicare è assolutamente affascinante e indispensabile, perché fare informazione è mettere in piedi quello che McLuhan ha chiamato il teatro globale, ossia un grande palcoscenico dove tutti siamo coinvolti come attori e non soltanto come semplici spettatori.

    La nostra storia alpina e quella dei nostri giornali di Sezione è qui a testimoniarlo. Lo testimonia con le tante lettere di chi ci scrive per dire le proprie ragioni, con le riflessioni su un passato carico di memorie, con la cronaca di un presente che ci convoca e ci compatta, facendoci partecipi dei fatti dei nostri amici. Lo fa con qualche foto ingiallita custode di nostalgie alla ricerca di amicizie perse di vista e con quelle dei nostri vissuti familiari, messi lì a spartire frammenti di gioia o qualche lacrima da consolare.

    È questa la nostra informazione. Essa non ha le pretese di cambiare la storia, ma più semplicemente di farci pensare serenamente e qualche volta seriosamente, di farci sentire vivi e uniti dentro la nostra storia e quella del nostro tempo con tutte le sue fatiche. È un’informazione che ci domanda, al pari di tutti, di crescere in professionalità dando vigore alla qualità del prodotto. Ma senza mai perdere di vista l’essenza, che è quella della verità dei fatti e quella, più grande ancora, di evitare la sclerosi dell’olfatto, fino a impedirci di sentire il profumo della fraternità alpina e l’orgoglio di appartenervi.

    Bruno Fasani

    Pubblicato sul numero di marzo 2010 de L’Alpino.