Il principio della fine

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    Roma, ore 16,30 del 10 giugno 1940. L’ambasciatore di Francia varca il portone di Palazzo Chigi per andare dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano che l’ha convocato d’urgenza. Gli comunicherà che l’Italia si considera in stato di guerra con la Francia a partire da domani 11 giugno . L’ambasciatore francese, uscendo, incrocia il suo collega inglese al quale Ciano ripete la formula per il Regno Unito. È l’inizio di una brutta pagina di storia italiana, il principio d’una fine che si manifesterà sin dai mesi successivi.

    Una tragedia che traccerà un solco che solo il tempo colmerà perché l’aggressione avvenne contro un Paese ormai piegato dalla strapotenza delle divisioni corazzate tedesche ed il cui esercito era in rotta su un territorio invaso dal nemico. E poi i soldati destinati a fronteggiarsi erano simili: nati e addestrati sulle stesse montagne, con le stesse abitudini e condizioni di vita e, spesso, la lingua. Il fatto è che Mussolini temeva di perdere un’occasione favorevole sfruttando i successi dell’alleato e voleva, come annotò Galeazzo Ciano nel suo Diario, qualche migliaio di morti per sedere al tavolo delle trattative di pace .

    Una pace che Mussolini credeva imminente e che, davanti ormai all’ineluttabile, speravano senza troppa convinzione anche i generali del nostro Stato Maggiore preoccupati dall’assoluta impreparazione delle forze armate italiane. Il nostro esercito, infatti, aveva un equipaggiamento vetusto, inadeguato non soltanto rispetto a quello tedesco ma anche a quelli degli altri Stati europei e non era certo preparato alla guerra, combattuta soltanto nei minacciosi quanto trionfali discorsi del duce e di qualche gerarca. Una situazione della quale era tuttavia perfettamente al corrente lo stesso Mussolini.

    Ciano, nell’agosto del ’39, aveva scritto che in questo momento la guerra sarebbe una pazzia, solo fra tre anni le possibilità di vittoria per l’Italia potrebbero essere dell’80 per cento . Quattro mesi dopo, a dicembre, il generale Roatta inoltrò al capo di Stato Maggiore gen. Badoglio, e per copia a Mussolini, un promemoria sulle condizioni del nostro esercito affermando che la miglior cosa da fare, se non l’unica, sarebbe quella di non scendere in guerra . Una convinzione che del resto aveva anche Badoglio, il quale il 1º maggio del ’40, mentre già soffiavano i venti che avrebbero spinto l’Italia nel baratro del conflitto, considerava lo stato delle nostre forze armate del tutto insufficiente per preparazione, scorte, equipaggiamenti .

    Più preciso, sull’orlo del catastrofico, il generale Graziani, nel suo ultimo rapporto per dissuadere Mussolini: Il Paese non è affatto pronto. I carri armati sono tutti leggeri e solo 70 sono medi. Le artiglierie sono quelle del ’15 ’18, molti pezzi sono bottino di guerra austriaco. La contraerea è inesistente, le munizioni coprono un dodicesimo delle necessità e carburante ce n’è soltanto per otto mesi . Nelle stesse precarie condizioni è l’industria bellica, impossibilitata ad affrontare una qualsiasi produzione di guerra. Faremo quello che potremo : questa la decisione di Mussolini.

    La notte fra il 10 e l’11 giugno la nostra aviazione compie otto incursioni su Malta mentre dodici divisioni italiane attaccano il fronte tra Briançon e Mentone, penetrando per qualche chilometro in terra francese ma incontrando una dura resistenza nonostante la superiorità numerica: 12 divisioni italiane contro quattro divisioni francesi. Non mancano, da una parte e dall’altra, episodi di grande eroismo. Ma ormai la sorte di questi scontri è segnata. Il 14 giugno i tedeschi entrano in Parigi e passano in parata all’arco di trionfo.

    Gli eventi precipitano: il 16 giugno il maresciallo Philippe Petain già vice ministro e quindi capo del governo dopo le dimissioni del premier Reynaud (che voleva continuare comunque la guerra, con l’appoggio della Gran Bretagna) accetta l’offerta di armistizio avanzata dal comando tedesco. I combattimenti di assestamento proseguiranno ancora per qualche giorno: il 20 giugno Petain sollecita l’armistizio anche al governo italiano.

    Alle 19,15 del 24 giugno a Villa Olgiata, presso Roma, il gen. Huntziger per il governo francese e il gen. Badoglio per quello italiano firmano l’armistizio. La guerra sembra finita, invece è solo all’inizio. In Africa settentrionale il fronte è aperto, il 28 ottobre truppe italiane invadono la Grecia, dall’Albania. Sarà una mezza catastrofe completata dalla campagna di Russia.

    Settant’anni dopo le ferite sono rimarginate. Appartengono alla storia lo sconcerto (che non impedì mai il compimento del dovere e anche grandi atti di eroismo) dei nostri alpini contro un vicino ormai sconfitto e l’amaro ricordo dei francesi per l’aggressione subìta. Oggi sta nascendo una brigata italofrancese per interventi umanitari, composta da alpini della Taurinense e chasseurs alpins della 27ª divisione. Italiani e francesi sono da tempo impegnati nelle stesse operazioni nei Balcani, hanno avuto Caduti sullo stesso fronte della pace. Entrambi non sono più di vedetta sulle cime perché quel confine oggi ormai unisce e non divide, legati come siano ad un unico destino che si chiama Europa. (g.g.b.)

    Pubblicato sul numero di giugno 2010 de L’Alpino.