La quasi totalità dei 300mila alpini che fanno parte della nostra Associazione sono “figli della naja”. Per tanti giovani il servizio militare era il vero distacco dal nucleo familiare, era la prima volta che viaggiavano, conoscevano e si confrontavano con altri giovani che avevano diversi dialetti, abitudini, occupazioni. Era un periodo faticoso, spesso pieno di disagi, in cui ci si metteva alla prova per affrontare gli obblighi imposti dalla realtà militare, considerata quasi un mondo parallelo, con il suo vocabolario particolare, ritmi e riti diversi da quelli della vita civile.
Al ritorno a casa quei giovani, però, avevano imparato che ancor prima di avere dei diritti c’erano dei doveri da onorare, che non esisteva solo l’individuo ma una collettività e delle regole da rispettare. E questa presa di coscienza era di stimolo anche all’impegno civico. Pur avendo le specificità di un’associazione d’Arma, l’ANA è un esempio di come questo meccanismo sia stato virtuoso, perché ha permesso di creare non solo aggregazione e condivisione ma ha catalizzato la volontà di tante persone a impegnarsi nel sociale. Non a caso è una delle organizzazioni che forniscono il maggior numero di volontari di Protezione Civile e i dati raccolti ogni anno parlano di 70milioni di euro destinati a vario titolo in solidarietà.
PERDITA DI VALORI? – Da qualche tempo, a più livelli, si discute della scarsa propensione di molti giovani a mettersi al servizio delle persone e del loro territorio. I sociologi parlano di un fatto allarmante, di perdita di valori etici che alla lunga rischiano di intaccare il capitale sociale. Quest’ultimo è più prezioso di quello economico perché riguarda quegli elementi intangibili che concorrono a formare un’unità sociale, riconoscibili in quei comportamenti che manifestano buona volontà, solidarietà, buoni rapporti con gli altri e così via. La scuola potrebbe essere il luogo più idoneo per educare alla cittadinanza attiva, perché è proprio la giovinezza quell’età in cui l’individuo sperimenta e prende coscienza civile, definendo la sua identità, il senso di appartenenza e la sua volontà di partecipazione alla comunità. Occorre però una riforma che metta al centro gli attori sociali e sia incentrata oltre che alla formazione dell’individuo anche alla sua educazione civica. Anche in questo ambito gli alpini possono dire di essere attenti e sensibili perché nei piccoli paesi come nelle grandi città sono spesso chiamati nelle scuole per parlare ai ragazzi della nostra storia, oppure per dar vita ai “campi scuola” in cui i giovani condividono esperienze di vita in situazioni meno agevoli di quelle a cui sono abituati, come collaborare per realizzare piccole opere di volontariato.
DA OBBLIGATORIO A VOLONTARIO – Dagli anni Settanta al servizio militare obbligatorio era stato reso alternativo il servizio civile che, seppur con spirito e modalità differenti, dava la possibilità ai giovani di rendersi utili per il prossimo. Poi, dal 2000, con l’istituzione del servizio militare professionale, più rispondente alle mutate esigenze nazionali ed europee, si è progressivamente passati alla sospensione della leva e del servizio civile alternativo. Dal gennaio 2005 la parola “obbligatorio” scompare, in favore del servizio civile volontario, attivo già dal 2001 e aperto ai giovani dai 18 ai 28 anni che “vogliano dedicare un anno della propria vita a favore di un impegno solidaristico, inteso come valore di coesione sociale”. In un decennio sono stati 280mila i giovani che hanno aderito al servizio civile ma negli ultimi anni sono andati diminuendo di pari passo alla riduzione delle risorse economiche che lo Stato ha messo a disposizione. E anche quest’anno si prevede un ulteriore calo delle presenze se si pensa che il primo contingente di gennaio conta 1.500 tra ragazzi e ragazze in tutta Italia, a fronte di una domanda piuttosto alta.
NUOVE PROPOSTE – Negli ultimi anni economisti, intellettuali e politici hanno invitato a prendere in considerazione l’istituzione di un servizio civile obbligatorio nazionale o europeo per incentivare nei giovani il senso di appartenenza, di identità e di comunità. Le voci contrarie ribattono che deve prima essere percepito dalla società come utile e deve soprattutto essere proposto con un meccanismo credibile, in grado di dare i risultati sperati. Altri sostengono l’incompatibilità dell’obbligatorietà con le norme stabilite dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, affermazione che non trova riscontro poiché nell’articolo 4 è espressamente stabilito che il servizio militare o sostitutivo – e altresì quello prestato per dovere civico – non sono da considerarsi dei lavori obbligatori. Ma i giovani come si comportano? Una sorpresa arriva dall’analisi degli ultimi dati Istat che certificano che in Italia l’11% dei giovani dai 18 ai 25 anni svolge attività gratuita per associazioni di volontariato. Questo dato supera di qualche punto la percentuale degli italiani di ogni età impegnati nel medesimo settore (nel 2013 è stato il 9,7%, nel 1993 era il 6,9%) e dimostra come nelle giovani generazioni l’interesse e l’attenzione in questo campo siano tutt’altro che sopiti. Lo Stato dovrebbe quindi scegliere di investire maggiormente nel settore, potenziando e perfezionando il sistema già presente, oppure reintroducendo un servizio obbligatorio che abbia il pregio di essere accessibile e gratificante. Vero è che i frutti non saranno immediatamente visibili, ma alla lunga potrebbe aiutare a consolidare e aumentare la coscienza civile delle nuove generazioni.
Matteo Martin
Parla un giovane
Francesco ha 25 anni e vive in provincia di Como; lavora da quando aveva 19 anni, è appassionato di montagna e ha conosciuto gli alpini tre anni fa quando ha partecipato all’Adunata di Torino. Gli abbiamo chiesto cosa ne pensa se fosse reintrodotto un servizio obbligatorio e come i giovani vivono l’impegno sociale. È una voce tra le tante che può fornire uno spunto di riflessione sull’argomento.
Se ti dicessero che devi partire per svolgere un servizio obbligatorio di qualche mese lontano da casa, come reagiresti e cosa penseresti? Metterei davanti a tutto il lavoro, a maggior ragione in tempi di difficile occupazione come questi. Se mi garantissero di tornare e trovare la stessa situazione a livello lavorativo lo farei abbastanza volentieri; in caso contrario la sentirei come una rinuncia troppo grande. Dico anche che se non avessi un lavoro partirei senza esitare anche per quatto o sei mesi, perché penso che sia un’esperienza utile per la crescita personale.
Cosa ti piacerebbe fare? Se potessi scegliere farei qualcosa legato ad una delle mie passioni. Da quando sono piccolo vado a camminare in montagna e farei volentieri qualcosa connesso a quel territorio e alla sua salvaguardia. Un servizio diverso lo farei comunque con grande impegno, perché lo spirito è quello di mettersi a disposizione degli altri.
Un servizio nell’ambito delle Forze Armate sarebbe interessante? Sarebbe un’alternativa addirittura migliore perché darebbe la possibilità di provare per qualche mese quello che poi potrebbe diventare un lavoro. Lo dico a maggior ragione per quei ragazzi che hanno 18 o 19 anni e che non sono ancora indirizzati in modo chiaro a livello lavorativo. Secondo la tua esperienza i giovani sono propensi a impegnarsi nel sociale? Personalmente sono stato cresciuto cercando di aprire gli orizzonti e di vedere oltre la famiglia, il lavoro e le amicizie: quindi sarei tentato di rispondere di sì. Però quando andavo ancora a scuola notavo che con i “primini” (i ragazzi iscritti al primo anno di scuola) c’era una grossa differenza di approccio e di sensibilità su questi argomenti. Fanno fatica perché non hanno una guida e sono allo sbaraglio perché non hanno esempi costruttivi.
Qual è l’ambito migliore per trasmettere ai giovani i valori di cui stiamo parlando? Metterei davanti a tutto la scuola perché un bambino, già dalle elementari, ha un primo vero confronto con persone che non sono dell’ambito familiare ed è quello il momento in cui l’esempio che viene proposto è più formativo e attecchisce maggiormente. In pratica vedo gli altri fare un’attività utile e voglio provare se è una cosa giusta anche per me.
Ma la famiglia in questo non ha un ruolo fondamentale? Certamente. La famiglia è importante per dare le basi dell’educazione, ma il primo confronto con l’esterno, diciamo con la società, lo si ha con la scuola.
Hai detto che hai avuto modo di conoscere gli alpini. Come li descriveresti? Cosa diresti della loro attitudine nel sociale? Beh, simpatici, perché non ho mai incontrato un alpino antipatico; generosi e pronti ad aiutare il prossimo. Non partecipo spesso alle attività degli alpini ma porto un piccolo esempio che mi ha colpito. Nel paese in cui lavoro c’era da sistemare l’oratorio della parrocchia, un bene prezioso per la comunità. C’è stata una gara tra le varie associazioni locali per raccogliere i fondi, ma quando sono arrivati gli alpini tra le loro donazioni e la quantità di gente che hanno coinvolto, la parola solidarietà è sembrata così facile da pronunciare.