Lo spunto per scriverle mi è venuto dalla lettura dell’articolo “capitano quaquaraqua” de L’Alpino di novembre firmato da Gianluigi Amici e in proposito avrei anch’io qualcosa da aggiungere a riguardo.
Mi sono congedato da artigliere alpino 47 anni fa e da allora mi ero promesso di non fare più parte di tutto quello che rappresentasse naja-divise militari-gradi-stellette-cerimonie, adunate e quant’altro. Decisione presa a causa delle “traversie” purtroppo subìte durante il periodo di ferma dagli arroganti e supponenti superiori, non certo esemplari a imporre ordini strampalati che hanno schifato non solo il sottoscritto ma l’intera caserma, naturalmente formata al più da ventenni. Il cappello alpino che certamente avevo voglia di “buttare”, sprovvisto della penna persa il giorno del congedo, l’ho recuperato pieno di polvere nella soffitta qualche tempo fa, non tanto per i tristi ricordi della naja (ci mancherebbe), ma perché sono stato testimone in prima persona dall’impegno encomiabile di un alpino del mio paese che, caparbiamente e con l’aiuto di volontari alpini e non ha portato a termine dopo varie peripezie e vicissitudini la definitiva “nuova baita” del mio paese. Questo esempio mi ha colpito, mi ha fatto riflettere, ha temporaneamente oscurato le giuste e ragionevoli perplessità e con un amico artigiano ho risposto all’invito contribuendo seppur parzialmente alla riuscita finale dell’opera intrapresa. La mia è stata una decisione sofferta ma la concomitanza di questo altruismo e forse l’età mi hanno spronato a mettere un velo ai ricordi sebbene ancor oggi la vista di divise di vario genere mi sia indigesta.
Gian Piero Tassello
L’errore di qualcuno non può mai diventare l’alibi per defilarsi, rinchiudendosi nel privato. Ma è anche vero che solo gli esempi di credibilità riescono a sciogliere i grumi delle nostre chiusure.