Da Quarto a Marsala, a Teano: l’epopea dei Mille

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    Il 17 marzo 2011 sarà una festa nazionale? È nelle intenzioni del governo per celebrare l’inaugurazione del Parlamento italiano convocato dal re Vittorio Emanuele II nel 1861 a Torino, prima capitale d’Italia. Il progetto è compreso nell’ambito delle (sobrie e perfino contestate) celebrazioni del 150º anniversario che, come ha detto il presidente Giorgio Napolitano a Quarto, da dove partirono i Mille, non sono tempo perso e denaro sprecato auspicando il recupero dei motivi di fierezza e di orgoglio nazionale, perché ne abbiamo bisogno .

    Concetti espressi anche alla commemorazione a Marsala, dove attraccarono le due navi dei patrioti e da dove iniziò l’impresa di Garibaldi. Impresa che, sulla carta, era disperata, perché aveva tutti i presupposti per un fallimento, pur avendo il tacito consenso del re e l’equivoca opposizione di Cavour. Questi, pur tenendo conto della nuova coscienza unitaria che si andava formando nella borghesia del Nord e del Meridione, riteneva ancora non maturi i tempi soprattutto considerando la situazione internazionale nella quale giocavano elementi contradditori, equilibri politici, interessi nazionali, alleanze più o meno manifeste.

    La Francia, per esempio, alla quale Cavour teneva molto per i diretti rapporti con Napoleone III, non avrebbe mai favorito un attacco piemontese contro lo Stato Pontificio e il regno Borbonico. La stessa lontana Russia avrebbe dato dei problemi diplomatici al piccolo Piemonte, in difesa dei rapporti commerciali con il regno delle due Sicilie sanciti da un trattato del 1787 che apriva alle navi borboniche il mar Nero ma soprattutto il Mediterraneo allo Zar. Anche se non ci fu mai un traffico navale significativo e l’accordo fu sempre più diplomatico che reale. All’Inghilterra, nonostante tutto, non dispiaceva tuttavia uno stato unitario al centro del Mediterraneo capace di contrastare ingerenze russe e austriache.

    E Vienna?Stava a guardare pensando ai propri domîni, sperando comunque di inserirsi a suo vantaggio nella partita. Quella di Garibaldi era dunque una missione impossibile, come si direbbe oggi, sostenuta in seno al partito d’azione, un movimento di agitazione e propaganda che raccoglieva personaggi come Mazzini, Pisacane, Pepe e Garibaldi, ma mancò sempre di un una vera direzione politica e soprattutto non riuscì mai ad avere presa sulle masse popolari. A favore dell’impresa c’era tuttavia una situazione di fatto, ed era la coscienza di tempi nuovi sempre più diffusa non solo fra la borghesia ma anche fra i ceti medi. È dell’estate del 1859 la dichiarazione delle assemblee costituenti riunitesi a Parma, Modena, in Toscana e in Romagna, che, dopo aver decretato la caduta dei vecchi regimi, reclamarono l’annessione al Piemonte.

    Nell’aprile del ’60 fallisce a Palermo un moto insurrezionale, che continua tuttavia nelle campagne dell’isola: i contadini si illudono di potersi impadronire delle terre, dopo la caduta dei Borboni. Sull’onda di questi sommovimenti Garibaldi rompe gli indugi e dà inizio al reclutamento di volontari, con il tacito appoggio del re mentre Cavour attende gli eventi. I patrioti partono la notte fra il 5 e il 6 maggio da Quarto al Mare, il porto del quartiere residenziale del levante di Genova che da allora prenderà il nome di Quarto dei Mille. I mille , in realtà, erano 1080 più una donna, Rosalia Montmasson, moglie dell’avvocato Francesco Crispi (il futuro presidente del Consiglio dal 1887 al ’91 e dal 1893 al ’96) e animatore con Mazzini della spedizione.

    Provenivano per la metà dal Lombardo Veneto (duecento erano bergamaschi), poi, in ordine decrescente, vi erano toscani, parmensi, modenesi, tra costoro vi erano 150 avvocati, 100 medici, 20 farmacisti, 50 ingegneri e 60 imprenditori. Numerosi gli stranieri, molti perseguitati in Patria: il colonnello inglese Giovanni Dunn con i connazionali Peard, Forbes, Speeche (il cui nome Giuseppe Cesare Abba, non potendo sottacere, trasformò nell’italiano Specchi), una dozzina di ufficiali ungheresi il cui apporto fu determinante in tante battaglie. E poi polacchi e perfino turchi, bavaresi e tedeschi.

    Sono imbarcati su due piroscafi, il Lombardo e il Piemonte rubati all’armatore patriota Raffaele Rubattino e puntano su Talamone, dove arrivano il giorno dopo e dove vengono riforniti di armi dalla guarnigione piemontese comandata dal maggiore Giorgini: caricano 4 cannoni, fucili e centomila proiettili e tanto altro ancora. Sbarcano 230 uomini che puntano sugli Abruzzi: l’intento è di provocare una sollevazione popolare ma a Grotte di Castro, nei pressi di Orvieto, vengono sbaragliati dalle truppe papaline e messi in fuga. Da Talamone, presi a bordo anche duemila disertori piemontesi, Garibaldi riparte alla volta di Marsala, dove giunge l’11 maggio.

    Il Lombardo e il Piemonte sono avvistati dalla marina borbonica, che non ha affatto l’intenzione di ingaggiare battaglia anche per evitare l’intervento di alcune cannoniere inglesi che incrociano in quelle acque (a protezione dei garibaldini). Solo dopo lo sbarco dei patrioti il Lombardo viene preso a cannonate mentre il Piemonte finisce arenato. Poi è quasi una marcia trionfale fino a Teano. Assicuratosi l’appoggio della nobiltà e della borghesia siciliane (in fondo, un re valeva l’altro purché si conservassero i privilegi), Garibaldi sconfigge l’esercito borbonico prima nell’aspra battaglia di Calatafimi e poi a Milazzo. Ormai tutta la Sicilia è liberata, Napoli cadrà il 7 settembre con il re Ferdinando II in fuga verso la fortezza di Gaeta. Garibaldi ha un disegno preciso: risalire verso Roma e occuparla.

    Ma a questo punto gli eventi prendono un’altra piega. Napoleone preoccupato anche per il saccheggio di beni religiosi non intende esautorare il Papa mentre comincia a non gradire anche l’eccessivo peso dei Savoia in tutta la penisola. È ora di fermare Garibaldi, e Cavour fa intervenire l’esercito guidato dai generali Fanti e Cialdini. Il primo scontro avviene il 18 settembre a Castelfidardo proprio contro le truppe papaline, mentre Garibaldi stronca sul Volturno l’ultimo disperato attacco di quello che resta dell’esercito borbonico.

    Vittorio Emanuele II accorre alla testa del suo esercito e incrocia, a Teano, i garibaldini. È il momento della verità, illustrato dall’agiografia patriottica con l’immagine del re e dell’eroe dei due mondi che, a cavallo, si stringono la mano. Saluto il re d’Italia , avrebbe detto Garibaldi. Vero o no, l’Italia, anche se ancora ne mancavano dei pezzi, era quasi fatta per davvero. Roma verrà il 20 settembre di dieci anni dopo, con l’ingresso dei bersaglieri nella città, attraverso Porta Pia. Ma Garibaldi sarà da anni a Caprera, dove muore il 2 giugno del 1882.

    Giangaspare Basile

    Pubblicato sul numero di giugno 2010 de L’Alpino.