Ber ghem, Ber ghem, Ber ghem… un grido cadenzato giungeva sul rombo dei passi che copriva il suono della fanfara ormai superflua. Era sera inoltrata. L’oscurità e la pioggia riducevano l’orizzonte visivo. Sembravano venire dal nulla, quasi per magia. Avanzavano in blocchi compatti e davano il senso dell’unità e della forza. E quando sembrava non essercene altri, ecco sopraggiungerne ancora, e ancora e ancora, quasi portati dal vento che soffiava di traverso e metteva i brividi.
La folla, dalle tribune, dai marciapiedi, dalle finestre, dopo dodici ore di attesa ininterrotta di quel momento, all’annuncio dello speaker li ha accolti con un boato. Pioveva, ma l’ombrello era diventato un ingombro per tutti quelli che, alzatisi in piedi di slancio, volevano applaudire, agitare le braccia, gridare Bravi! , accompagnare quel grido Ber ghem che univa tutti in un unico coro: strada, tribune, finestre, terrazze.
Una città. Uno spettacolo unico, trascinante, irripetibile. Con un crescendo che di volta in volta sottolineava i momenti particolari, come quando si è profilata la camionetta scoperta sulla quale il presidentissimo Nardo Caprioli salutava con il braccio alzato come in segno di vittoria. Berg ghem! In quel grido c’era tutto: l’orgoglio dell’appartenenza, la storia di quel Berghem de sass che più d’un motto è uno stile di vita, memoria di chi è rimasto nella steppa con il mitico 5º, amore per gli alpini e un’intera collettività con le sue valli alpine da sempre.
Si capiva perché in quella meravigliosamente folle impresa dei Mille i bergamaschi furono la compagine più numerosa. Perché 150 anni fa gettarono il cuore oltre ogni ostacolo e male armati, organizzati alla rinfusa, forti solo della loro travolgente passione s’imbarcarono una notte da Quarto per fare l’Italia. E ci riuscirono. Più di tredici ore è durata la sfilata, sotto un cielo ch’era plumbeo già al mattino.
Eppure non è mai mancato l’entusiasmo, dall’arrivo solenne della Bandiera di guerra del 5º Alpini e del Labaro al passaggio, a fine sfilata, dello striscione Arrivederci a Torino seguito dal Gonfalone di questa città scortato dal sindaco Chiamparino. E con quanto affetto sono stati salutati quei giovani in divisa che rappresentano la storia del Corpo degli Alpini e il suo futuro, e quale ovazione ai reduci, soprattutto a quello della guerra d’Abissinia, Cristiano Dal Pozzo, classe 1913, da Rotzo (altopiano di Asiago), sceso dalla carrozzella spinta da un alpino per camminare da solo, sorreggendosi col bastone traballante, davanti al Labaro, con quel passo incerto che ha scatenato un’ovazione.
Continuata quando il presidente Perona ha lasciato la tribuna d’onore per abbracciarlo, seguito dai generali Novelli e Primicerj, e poi dal sindaco e infine dal presidente della Provincia. La pioggia impediva di vedere le lacrime, ma in tanti avevano gli occhi arrossati. È stato un susseguirsi di emozioni: allo scorrere di quelle sezioni che hanno i nomi di tanti battaglioni e gruppi, pezzi di storia; all’incedere degli alpini venuti dall’Australia e dal Canada, dalla Bulgaria e dal Perù e delle penne nere d’Abruzzo con il loro vessillo sormontato da una grande aquila che ricorda un battaglione decimato in Russia. E poi i volontari della nostra Protezione civile e dell’ospedale da campo, unico in Italia e in Europa.
Passano le formazioni colorate della nostra Protezione civile, le sezioni cinofile con meravigliosi cani addestrati a salvare le persone, e poi Torino, i cui alpini stanno lavorando da un anno per preparare l’Adunata del 150º dell’Unità, e poi la Sicilia e la Sardegna alpine e il Triveneto, con Vittorio Veneto, la Città della Vittoria , e Trento, Trieste, Bassano e poi Reggio Emilia, la Città del Tricolore . E che brivido, ad una delle rare schiarite, quando il fragore dei motori ha provocato un sussulto ed è stato un tutt’uno col passaggio delle Frecce Tricolori, la pattuglia acrobatica nazionale che è il nostro orgoglio e l’ammirazione del mondo.
Tre passaggi radi, quasi a sfiorare gli alberi, segnati da scie tricolori che parevano non disperdersi mai e rispecchiare in alto i tricolori d’una intera città. Le ore trascorrevano in fretta. Siamo in ritardo, manca ancora tanto all’arrivo degli alpini di Bergamo e tu sei stanco ripeteva un alpino al padre, reduce di Russia, guardando il programma La sfilata chissà quanto durerà ancora… . Non importa ha risposto pacato il reduce Non so se potrò essere alla sfilata di Torino, intanto comincio a godermi questa… . E un giovane meravigliato dal continuo sopraggiungere di alpini: …ma perché sfilano in tondo ? , chiedeva.
Anche questo è la sfilata, un mosaico di episodi, persone, suoni e colori, di blocchi ciascuno con la propria storia e tutti insieme formavano un fiume di penne nere, colorato come un lungo, lunghissimo prato. Tredici ore e passa, senza un momento di stanca, con lo stesso entusiasmo, con gli spettatori capaci di emozionarsi ad ogni novità in quell’ininterrotto fluire di alpini, bande, complessi musicali, tricolori, vessilli, gagliardetti, striscioni nei quali si leggevano parole come Onore, Patria, Altruismo, Dovere… Non solo parole ma modello di vita giorno per giorno.
Non solo spettacolo ma sostanza di un’Italia pulita, nel marasma quotidiano d’una società smarrita, punto fermo come un faro al quale fare riferimento, sul quale si potrà sempre contare perché gli alpini sono sempre gli stessi.
Giangaspare Basile
Pubblicato sul numero di giugno 2010 de L’Alpino.