Settant’anni fa, 26 gennaio 1943, fronte russo, battaglia di Nikolajewka: un evento del quale esistono, e resistono, memoria e storia. Nikolajewka (alpini), come il porto di Alessandria (decima flottiglia Mas), come El Alamein (parà della Folgore e carristi della Ariete), come Isbuscenskij (Savoia Cavalleria), come Bir el Gobi (i giovani volontari fascisti), come il fronte del Don (ancora alpini), rappresentano luoghi, eventi di valore e di sacrificio, di sangue e di morte, ma anche di speranza, di sopravvivenza, di vita.
È vero, non bisogna esaltare la guerra, non bisogna esaltare la violenza. Aneliamo tutti alla pace, alle cose buone, eppure in tanti (noi diciamo: troppi) momenti della storia dell’umanità, pur guardando alle cose buone, si è imboccata la strada delle cose cattive, se non peggiori. Ed è altrettanto vero che pur cercando la pace, pur predicandola, pur tentando di mantenerla, la guerra è entrata a far parte della storia dell’uomo: la guerra, cioè la violenza, nella quale l’uomo si è trovato a combattere contro un altro uomo, un popolo, una nazione, contro altri popoli, altre nazioni.
Il cristiano dà una spiegazione a ciò rifacendosi al peccato originale. Il non cristiano, non sappiamo … alla natura matrigna? Tutto ciò premesso e sottolineato, il ricordare questi anniversari significa soffermarsi sulla nostra storia e trovare nel ricordo motivo di riflessione. I nostri soldati, gli alpini in particolare, hanno sofferto, hanno patito, hanno sopportato in maniera indicibile, e non diversamente dai nemici, quel che l’evento guerra comporta.
E se ricordiamo quel gesto e quel grido del generale Reverberi (“Tridentina avanti!”, “Tridentina avanti!”) nel primo pomeriggio a Nikolajewka settanta anni fa, non è soprattutto per esaltare la guerra, bensì per rendere omaggio a quei morti, a quei giovani che non riuscirono a salvarsi, nonché a quelli che riuscirono a tornare a baita, a prezzo però di inenarrabili sacrifici e pene…
C’è, nell’uomo, un miscuglio di bene e di male, di stupefacenti slanci eroici e di vergognose viltà, di spinte altruiste e di umilianti egoismi, ma alla fine, in tantissimi, c’è una profonda pietas che spinge, appunto, a ripiegarsi in se stessi, a riflettere, a pregare (se credenti), a dimostrare una solidarietà consapevole.
A conservare una memoria che accompagna nel cammino dell’esistenza. Nikolajewka è una di queste occasioni e se quell’evento, nel più ampio contesto della Campagna di Russia, è stato materia di saggi storici e di epiche narrazioni, non di meno ha ispirato un musicista alpino, Bepi De Marzi, che fra le varie composizioni, così elevate spiritualmente, così toccanti sentimentalmente, ha pure scritto una canta il cui titolo è di una sola parola: “Nikolajewka”. E una sola è la parola del motivo: Nikolajewka.
Ripetuta, più volte con una melodia ora sommessa, ora in crescendo, e poi ancora quasi sottovoce, a imprimere ai cuori e alle menti di chi ascolta, il senso di questa melanconica rievocazione di tragedia vissuta e subìta nelle proprie carni. Un canto che penetra nel cuore, che apre l’anima, per elevare infine tutto l’essere oltre i limitati orizzonti terreni, oltre le non dimenticate anse del Don, oltre le bianche distese di gelo, oltre quel non dimenticato terrapieno ferroviario di quel piccolissimo punto che sulla carta geografica che reca il nome di Nikolajewka, ignoto e ignorato prima di quel fatidico 26 gennaio 1943.
Giovanni Lugaresi – Giavera del Montello (Treviso)
La guerra, come una medaglia a due facce, mette in luce il santo e il lupo che è nell’uomo. La storia ce li presenta in contemporanea obbligandoci a prendere posizione, decidendo quello che vogliamo diventare. Sappiamo bene che non occorre partire per il fronte per aprire campi di battaglia. Li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Saggezza è non coltivare la cultura del nemico e dell’estraneo.