Una menzogna smentita dai fatti

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    15 settembre 2017. Con un gruppo di amici stiamo attraversando l’Albania per portarci verso il Nord. Ci accompagna Bashkim Hyka, che ci fa da guida, il quale conosce la storia del suo Paese come pochi altri. Siamo curiosi di ritrovare le tracce della presenza italiana da queste parti, soprattutto quella degli alpini, che qui hanno combattuto per conquistare questa terra, divenuta italiana per quattro anni, a partire dal ’39 e scenario di guerra e di sangue in quella Campagna di Grecia che ha visto decimata tanta parte della truppa mandata giù a combattere.

     

    Il pullman che ci trasporta si ferma ai piedi di un monte. Non è altissimo, 1615 metri sul livello del mare, ma visto da sotto incombe con la sua imponenza. Soprattutto incombente e malinconica è la sua storia. Siamo ai piedi del Golico, per gli alpini il Golgota. Era la cima da conquistare perché da lassù si poteva avere il controllo delle vallate laterali, quelle del fiume Drino e della Vojussa. Bashkim ci indica pensieroso una lama verticale che dalla vetta scende più in basso.

    Una sorta di canale nella roccia. Da lì salivano gli alpini per conquistare la cima, da lì scendevano i feriti e i cadaveri che lassù avevano chiuso il conto con la vita. Sembra una ferita viva nella parete rocciosa, come se neppure la vegetazione avesse più voluto nutrirsi di quella porzione di montagna intrisa di angoscia. Poi Bashkim ci parla della sua amicizia con gli alpini. Ora ne conta davvero tanti tra loro. Li accompagna, mostra loro le tracce superstiti del loro passaggio, ma soprattutto ha imparato a conoscerne l’animo e lo stile.

    Ma non sempre era stato così. Era ragazzo quando il dittatore Hoxha faceva loro il lavaggio del cervello, dicendo che 240mila bunker erano indispensabili per difendersi dal nemico che sarebbe arrivato dal mare, e inculcando nella gente l’immagine del fascismo identificata con il cappello degli alpini. Passava così nell’immaginario collettivo che alpino fosse sinonimo di fascista. Se lo ricordava bene Bashkim quando nel 1991, non ancora maggiorenne, sbarcò a Brindisi da quella nave, le cui immagini fecero il giro del mondo. Tremila persone ammassate come api sul favo che cadevano in acqua, come in un tuffo nella fontana della speranza, quella di una libertà che avevano a lungo sognato. Ma da subito la speranza si coprì di nubi. Prima dissero loro che sarebbero stati impiegati nel lavoro nei campi. Fu il gelo. Loro sapevano bene cosa voleva dire lavorare la terra con la zappa e le mani. Solo di lì a poco avrebbero realizzato che in Italia le macchine consentivano ai contadini di risparmiare tanta fatica e sudore. Ma questo non era ancora il peggio. Quello sarebbe stato una volta arrivati in Friuli, quando iniziarono a smistarli nei vari campi per i rifugiati.

    A portarli in una caserma fu un mezzo guidato da un alpino sotto la sorveglianza di un militare sempre con la penna sul cappello. Associare fascismo e alpini fu tutt’uno. Da una dittatura all’altra, pensarono in quei momenti. La conversazione si concentrò immediatamente su come eliminare i due e riacquistare la libertà. Le proposte furono varie. Nessuna incruenta. Fu per una singolare provvidenza che nessuno sapeva guidare e questo consentì di perdere tempo e arrivare in caserma prima che si consumasse una tragedia. Ma fu proprio in una caserma di alpini che quei giovani disperati capirono la menzogna che li aveva indottrinati e la verità di quegli uomini che erano morti sul Golico.

    Si sentirono per la prima volta fratelli di qualcuno, figli di padri dall’animo nobile che si prendevano cura di loro. Soprattutto per la prima volta gustarono, restando con gli alpini, di aver raggiunto una terra di pace, dove la solidarietà e l’amicizia venivano prima di ogni altra cosa. E non l’avrebbero più scordato.

    Bruno Fasani