Un sorso di naja

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    Un rompicapo quasi impossibile da spiegare. Occorre praticarla. Una disciplina legata a filo doppio con la naja. Persino gli ‘imboscati’, quelli che stavano negli uffici o in fureria, durante i mesi del servizio militare, una volta almeno hanno marciato. Il tenente in testa, l’ufficiale di coda e su con passo cadenzato, su in mezzo ai boschi e ancora più su dove il panorama cambia, le rocce vincono sui prati e l’aria fine accorcia il fiato.

    Gli scarponi un poco ammorbiditi da tonnellate di grasso, salgono in fila. Attorno solo il rumore dei respiri, delle bocche aperte che cercano più ossigeno perché la salita si fa ripida e il passo s’accorcia. Questa è l’immagine che deve aver ispirato gli ideatori di una disciplina come la marcia di regolarità in montagna, una delle gare previste anche nella prima edizione delle Alpiniadi estive. A Limonetto la partenza. Sono le sette ed è pieno di alpini. Gli occhi degli atleti guardano al cielo terso. Le dita puntano la montagna e disegnano un itinerario, quello più probabile. Sì perché una delle tante stranezze di questa disciplina è il percorso ignoto, diviso in settori, da un minimo di tre ad un massimo di sei con una lunghezza che può variare dai 12 ai 18 km.

    Si cammina seguendo i segni, le bandierine o le frecce. È possibile scegliere tra due categorie, ‘media alta’ e ‘media bassa’ a seconda della velocità. S’incontreranno tratti di salita, di piano e di discesa. Vietato l’uso del gps, ammesso invece quello del cronometro. Al momento del via, viene consegnata ai concorrenti una tabellina con indicata l’ora di partenza e la velocità media da rispettare nei diversi settori di gara. Ad ogni controllo, ovvero quando finisce un settore e inizia il successivo, i cronometristi annotano sulla tabellina l’orario di passaggio dell’ultimo alpino di ciascuna pattuglia. Occorre quindi che il gruppo viaggi sempre compatto.

    Scopo della gara è riuscire a percorrere ogni settore in un tempo il più vicino possibile a quello teorico e segreto, misurato in precedenza dagli organizzatori. Ogni secondo in anticipo o in ritardo rispetto al tempo fissato, comunicato solo a fine gara, vale una penalità. Le penalità di ogni settore si sommano e risulta vincitore chi ne ha meno. Alla partenza e all’arrivo bisogna calcare il cappello alpino. Non vince chi per primo taglia il traguardo, ma chi dimostra d’aver esperienza e abilità nei conteggi.

    A volte, però è la fortuna a far la differenza. Sono le otto, si parte. Un breve tratto su strada quindi le pattuglie spariscono nei boschi di larici e abeti bianchi della valle Vermenagna. Dopo un declivio dolce raggiungono il Colle di Tenda: le suole pestano la neve che resiste alla primavera inoltrata. Quassù il vento freddo delle alpi incontra la brezza che viene dal mare della Costa Azzurra: in mezzo ai resti di sei forti militari, ancora oggi visitabili, si cammina lungo il confine tra Francia e Italia. All’arrivo a Limone Piemonte nessun tifo, nessun grido vittorioso.

    Solo gli applausi della gente e la voce di Tonino Di Carlo, della Commissione sportiva nazionale, ad accogliere gli alpini che tagliano il traguardo. L’atto finale è la consegna del cartellino con l’annotazione, da parte dei giudici, dell’ultimo tempo. Poi non resta che attendere le classifiche. Una competizione in cui corpo e mente hanno imparato a parlarsi, ad ascoltarsi, a sostenersi. Una disciplina silenziosa, quasi filosofica che celebra la natura e ciò che dovrebbe essere sempre la vera essenza dello sport.